Elio Biffi, non solo «Pinguini»: «Nella musica trovo la bellezza»

L’INTERVISTA. Il musicista mercoledì al Cte di Longuelo per una serata di canti della tradizione popolare: «La passione per il folk dalle canzoni d’autore che pescavano nel mondo celtico o pop. Stadi o osterie, suonare è uno spettacolo».

Se chiedete a Elio Biffi, il tastierista dei Pinguini Tattici Nucleari, cosa sia la musica, avrete una risposta articolata. Musicista appassionato, idee chiare, sa mettere in ordine armonie, melodie, sentimenti, la musica che produce successo e quella che, senza smuovere gli stessi numeri, lenisce ugualmente l’animo umano. Per lui passare da uno stadio ad una serata di «Canti intorno al tavolo» è un attimo, così come suonare in un disco dei Mercanti di Liquore, il gruppo di quel Lorenzo Monguzzi che ascoltava quando era ragazzino. Ora è grande e quando è libero dagli impegni che la sua posizione e il mainstream pop richiedono, sceglie di suonare e cantare dove la passione lo conduce. Mercoledì al Cte di Longuelo di via Toscanini 4 (ore 21), per una serata di canti della tradizione popolare. Chiunque arriva al Centro anziani è ben accolto. «La cosa carina è che non c’è alcuna selezione e l’ingresso è aperto a tutti quelli che hanno voglia di cantare. Chi arriva arriva».

Per lui passare da uno stadio ad una serata di «Canti intorno al tavolo» è un attimo, così come suonare in un disco dei Mercanti di Liquore, il gruppo di quel Lorenzo Monguzzi che ascoltava quando era ragazzino

Alberto Rota, l’inventore degli incontri, già direttore artistico de «L’Isola folk», ha recuperato negli anni un vasto repertorio che ha raccolto in piccoli quaderni che sono a disposizione di chi partecipa. Nei libretti ci sono i canti numerati; chi conduce sceglie il canto e via. «Il pubblico è piuttosto eterogeneo», spiega Biffi. «C’è anche una fascia giovanile, ci sono i quarantenni, gli anziani dei vari quartieri che abbiamo attraversato, gli appassionati di canto, componenti di vari cori. Vengono spesso anche i Pane e Guerra». L’iniziativa è interessante perché mantiene viva la tradizione del cantare. Una tradizione popolare che interessa molto Elio tanto che suona anche con il «Laboratorio popolare ì Sifulére» quando non è impegnato a riveder canzoni meneghine, del «Derby» e no, insieme a Sandro Paté, Enea Barzaghi, e Michele Dal Lago. «La gente pensa che quando uno lavora a livello alto e pop nella musica ogni suo minuto sia organizzato e che tutto sia legato al marketing».

Invece c’è tempo anche per altro, a quanto pare.

«Negli anni sono riuscito a ritagliarmi degli equilibri gestionali e di tempistiche, soprattutto da quando il lavoro è diventato a lungo termine. Quando nella musica si arriva ad un certo livello i cicli sono ampi. Anche il tempo di progettazione si amplifica. È diverso dagli anni in cui cresci e devi intercettare ogni occasione. Ora posso scegliere come organizzarmi, quando viaggiare, suonare».

Da dove nasce la passione per esperienze musicali altre, e in particolare per la musica popolare?

«Ho ricordi personali della mia infanzia molto vaghi. I nonni materni per un periodo hanno organizzato delle piccole rappresentazioni in paese, a Pedrengo, con momenti di canto. In fase più adulta ho studiato pianoforte e dall’adolescenza ho fatto tanti ascolti nell’ambito cantautorale, popolareggiante: quell’universo che tra gli anni Novanta e il Duemila ha preso spunti dalla musica popolare e dalla world music. Penso ai dischi di De André di quegli anni, a “Creuza de ma”. La canzone d’autore che pescava suoni dal mondo della musica etnica e popolare. Sono gli anni in cui ho cominciato a suonare nei primi gruppi, con uno facevamo musica originale, con un altro, i Servi Disobbedienti, ho cominciato a suonare la fisarmonica, cantando e suonando».

Come ha scoperto il folk, la musica popolare?

«In tarda adolescenza ho esplorato l’universo delle musiche celtiche, anche perché la Bergamasca offriva tante proposte di quel genere. Si pensi all’Isola folk e all’attività concertistica promossa da Gigi Bresciani. Con i Servi suonavamo anche canzoni militanti, alla Modena City Ramblers, le canzoni di De André più folkeggianti. In quella fase ho incrociato anche i Mercanti, molto prima di conoscere Lorenzo, che ho incontrato durante la Pandemia per il progetto per Emergency».

Dove si è fatto le ossa «folksy»?

«Un luogo chiave di questa mia esplorazione è stato il “Maite” di città alta. Ho trascorso là tante serate di performance spontanee. Lì credo sia nato il mio sentimento per la musica folk, in una dimensione estemporanea, sganciata da tutte le logiche, non solo del mercato, della formalità del rito concerto. La musica popolare nasce e prospera dove certe dinamiche proprio non ci sono. Anche la maggiore confidenza con la fisarmonica mi ha fatto avvicinare a diverse realtà legate alla musica popolare e al canto. Con i La.P.I.S ho cominciato a suonare e a studiare in profondità questo mondo. Grazie anche a figure come Alberto (Rota, ndr) o Sandra Boninelli. E da questa via mi sono avvicinato a manifestazioni che sono intrise di tradizione come il Carnevale di Valtorta, o altre che interessano la profonda Bassa, verso il Cremonese, dove è ancora viva la tradizione di trovarsi a cantare nelle osterie in occasione dei Giorni della Merla».

«Quello che mi dà maggiore soddisfazione è quando, attraverso l’incontro musicale spontaneo, trovi giusto la bellezza, e non è un percorso molto diverso da quello che affronti montando un grande spettacolo per gli stadi»

Alla radice di questo suo interesse pensa ci possa essere anche la ricerca di una dimensione umana più diretta, tangibile? Al di là dell’esperienza pure molto coinvolgente della collettività da stadio.

«È una linea che si può vedere, non lo nego. Però preferisco sottolineare la contiguità tra queste dimensioni. C’è di mezzo la stessa gente, lo stesso popolo. In ogni caso c’è la ricerca di bellezza nella musica. Quello che mi dà maggiore soddisfazione è quando, attraverso l’incontro musicale spontaneo, trovi giusto la bellezza, e non è un percorso molto diverso da quello che affronti montando un grande spettacolo per gli stadi. Coltivo l’illusione che la differenza stia nella pianificazione tecnica della performance, ma che l’obiettivo di fondo, lo slancio comunicativo sia identico».

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