Giornata della Memoria: internati militari, una tragedia oscurata

In vendita con «L’Eco». Il libro di Silvia Pascale e Orlando Materassi racconta dei 650mila italiani che si rifiutarono di passare nella Rsi. Il racconto dal lager di un soldato: «Chi sono gli amici e i nemici? Ora sono il numero 137.260».

«La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio […] “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah, le leggi razziali, […], gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte». Dunque, non «solo» la Shoah, come, de facto, nelle scuole, in tv, sui giornali, è sempre, praticamente, avvenuto: «È passata una generale idea da parte delle istituzioni che il 27 gennaio si dovesse celebrare soltanto il ricordo della Shoah». Per certi versi anche comprensibilmente, lo sterminio del popolo ebraico ha oscurato la deportazione, la prigionia, le sofferenze, la morte di tanti Internati militari italiani (Imi). Circa 650 mila effettivi del Regio Esercito, cioè, tra ufficiali, sottufficiali, soldati, che, dopo la tragedia dell’8 settembre, si rifiutarono di arruolarsi nei ranghi della Rsi o dell’esercito tedesco.

Getta altra luce, ora, sulla loro vicenda, storica, personale, familiare ed umana, il volume «Internati militari italiani. Una scelta antifascista», di Silvia Pascale e Orlando Materassi, rispettivamente consigliere (e presidente della sezione di Treviso) e presidente nazionale dell’Anei, Associazione nazionale ex internati (Editoriale Programma, pp. 102), in vendita con «L’Eco di Bergamo» a € 7,90 oltre al prezzo del quotidiano da martedì 17 gennaio e fino a giovedì 2 marzo.

La vicenda degli Imi, notano gli autori, è rimasta per decenni nell’oblio, quasi sempre assente dalla didattica o da iniziative dedicate, specifiche, nelle scuole di ogni ordine e grado. Ragioni diplomatiche e politiche avranno forse avuto la loro parte: la volontà di non creare screzi fra Italia e Germania, da una parte; dall’altra il fatto che per la Destra «gli Imi erano stati dei traditori», per la Sinistra «soldati di un esercito monarchico e colluso con il fascismo».

Le tante cerimonie dei vari 25 aprile e 2 giugno non hanno mai associato «gli Imi ai partigiani», «né tutt’oggi si può trovare la loro storia nei testi scolastici». L’esercito degli Imi, aggiungiamo qui, non ha certo avuto testimoni, memorialisti, scrittori del livello altissimo e della (sacrosanta) notorietà di un Primo Levi (nonostante la pubblicazione del suo capolavoro, «Se questo è un uomo», sia stata inizialmente rifiutata, nel ’47, in Einaudi, pare da Natalia Ginzburg, con miopia e gesto inqualificabile; «siamo stati dei colpevoli imbecilli» ammetterà la stessa Ginzgburg in lettera a Chiaberge, secondo testimonianza di quest’ultimo). Ma, con Levi, una legione di testimoni ha sentito il dovere di raccontare la Shoah, lasciando libri anche di alto valore, come, limitandoci al panorama italiano, Liana Millu o, pur fuori dal tema specificamente concentrazionario, Aldo Zargani; o, in tempi significativamente differiti rispetto all’esperienza, come molti fuori d’Italia, Nedo Fiano.

Nel caso degli Imi, invece, «testimonianze scritte sono rimaste spesso nei cassetti, ricordi mai raccontati per voler scordare, per non causare traumi familiari, per il timore di non essere creduti». Apre un capitolo di inquadramento storico, che ricostruisce come si sia arrivati alla deportazione di 650 mila militari ex alleati, mettendo in luce l’enorme distanza di programmazione e preparazione fra esercito tedesco e italiano («l’italiano arrivò all’8 settembre nel buio più assoluto»). Segue una ricostruzione complessiva delle vicende degli Imi, distribuiti in una vasta costellazione di lager, usati per lavoro coatto soprattutto nell’industria bellica, nel settore edile e nell’industria pesante. Le condizioni di vita -alimentazione, igiene, pulizia, alloggiamenti, possibilità di comunicare con i propri cari, erano pessime. Anche se, come racconta Alessandro Natta ne «L’altra resistenza», «il processo di distruzione completa della personalità umana non giunse per noi alle fasi terribili dei campi della morte».

Vista la poca conoscenza di testimonianze dirette, il fatto che molte di queste siano appunto, secondo gli autori, rimaste «nei cassetti», il libro coerentemente provvede a farne conoscere una che è un inedito, una primizia assoluta: le memorie di Giacinto Tonellotto, nato a Volpago del Montello (Treviso) nel 1915, partito per l’Albania nell’aprile 1941 e poi deportato, nel settembre 1943, dalla Jugoslavia in Germania, dove resta in lager, nei pressi di Magdeburgo, sino all’aprile 1945. Si tratta di due documenti: un quaderno con annotazioni dal primo aprile al 18 maggio 1941; e «un piccolo blocco di carta iniziato l’11 settembre 1943 e terminato il 29 aprile 1945», consegnati alla Pascale dall’unica figlia di Tonellotto, Daniela, tramite l’amica Barbara Conte. Non si sa dove siano finite, se esistite, le annotazioni dal maggio ’41 al settembre ‘43.

Inutile dire che questa è la parte più interessante, viva, coinvolgente del libro, vuoi per la sua assoluta freschezza, vuoi perché dalla scrittura saggistico-storiografica si passa a quella diaristica, vuoi soprattutto perché le brevi, secche, lapidarie note del militare italiano ci proiettano «in diretta» nell’atmosfera, negli accadimenti, nelle privazioni, nel sentire di quei giorni tremendi. Si percepisce nitidamente, in queste pagine, lo smarrimento, la confusione, il dubbio, la fame, il freddo, la stanchezza; ma anche una profonda dignità, una capacità di tenere la testa alta anche nel disagio, di non cedere al vittimismo per l’asprezza delle condizioni materiali.

Altra cosa, invece, è la sofferenza affettiva, più capace di prostrare il militare italiano. Così come difficile sfuggire al disorientamento, all’incertezza, alla surreale ambiguità del momento, per un esercito abbandonato, lasciato senza direttive dal «re fellone» e dagli alti comandi, che non sa come deve considerare chi, sino a quel momento, era stato il suo primo e fondamentale alleato. Incertezza, sgomento, che si colgono, palpabili, sin dal primo appunto, dell’11 settembre 1943: «Un certo nervosismo ricomincia a prenderci. Chi son gli amici? Chi i nemici?». Il passaggio di status diviene chiaro già il giorno dopo, 12 settembre: «Imposizione di disarmare entro 20 minuti altrimenti si aprirà il fuoco su noi. Siamo circondati e abbiamo capito che Ragusa [Dubrovnik, Croazia] è caduta». Il 14, nei pressi di Sarajevo, il primo, disameno contatto con un campo di concentramento: «Sentinelle ci vigilano e si dorme all’aperto, perché le baracche sono zeppe di pulci, cimici e qualche altro inquilino poco desiderabile». Poco prima se n’erano andati, da quello stesso campo, i pazienti di tifo petecchiale.

La decisione di non aderire alla Rsi, il 17 settembre, è narrata con poche, asciuttissime note: «Ci hanno proposto di voler aderire alla repubblica fascista costituitasi in Italia. Molti pensieri per la mia mente, ma benché i miei sentimenti non siano mutati verso il Re, infine non ho aderito». Per Giacinto si apre la strada del lavoro coatto. E la compagnia assidua della fame: esauriti i «pochi viveri» tenuti di riserva con tanta parsimonia, già il 20 del mese «l’appetito si fa sempre più forte ma è necessario farlo tacere cercando di dormire e bevendo tanta acqua».

La sera dopo il diversivo di un concerto eseguito da una «orchestrina» del 25° Reggimento di Fanteria «Bergamo», che operava sul fronte jugoslavo. La prospettiva, il giorno dopo, di mangiare «due rane» è sufficiente a «rinforzare corpo e mente». Tormentosa quanto e più della fame, si diceva, è l’assoluta nebulosità della situazione, l’impossibilità non solo di prevedere il futuro lontano, ma di vedere, nell’immediato, qualcosa di «positivo», fondato, credibile: «Quali realtà ci serberà questo mese [di ottobre]?». Le supposizioni che circolano sono indegne persino di essere trascritte, perché in grado di «ciance»: «Viviamo in un mondo che non è mondo». Attraversata Austria e Ungheria, Tonellotto arriva a destinazione, nei pressi di Magdeburgo. «Cesso di essere Tonellotto, sono il prigioniero di guerra 137.260».

Da qui, un anno e mezzo in cui i grandi nemici, di nuovo, come per Levi, ma anche per tanti testimoni scampati a gulag o laogai, quali per esempio Šalamov o Harry Wu, sono fame e freddo. Più che dal «dolore fisico», tuttavia, Giacinto è oppresso da un «acuto dolore morale». La lontananza dalla fidanzata Nori, Natale e Pasqua senza i propri cari, la difficoltà/impossibilità di comunicare via lettera, sono pensieri e dolori anche più presenti e più vividi: «Non so più nulla da casa mia dal 25/8 - da Nori dal 30/8. Cosa sarà di loro? Ho cercato nei giorni scorsi di dimenticare, ma la mia mente è sempre con loro».

Finalmente, nell’aprile del ’45, la liberazione. Saranno dei «civili tedeschi» ad indicare a questi profughi, allontanatisi a piedi dal campo, ridotti a «larve umane», la via per raggiungere gli americani.

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