Giraud: «Dalla pandemia ne usciremo solo tutti insieme»

L’economista Gaël Giraud: lo Stato deve collaborare con la società civile e il settore privato per prendersi cura dei beni locali e globali, la biodiversità, la sanità, il clima, la cultura.

«Sono almeno due le grandi lezioni che emergono da questa pandemia, le cui conseguenze non abbiamo ancora finito di provare sulla nostra pelle. Usciremo dalla pandemia solo tutti insieme: se un solo Paese continua a lasciar circolare il virus nella propria popolazione, vi saranno nuove varianti contro le quali i nostri vaccini finiranno per diventare inefficaci. Bisogna allontanarsi, poi, da questa globalizzazione mercantile che, con il pretesto di voler massimizzare i dividendi degli azionisti, rifiuta di conservare degli stock, ad esempio di mascherine e di enzimi, e ci fa diventare dipendenti dalle catene di valore mondiali più fragili, nelle quali la Cina gioca un ruolo preponderante, rendendo vulnerabili gli Stati».

Gaël Giraud, economista, gesuita, teorico della transizione ecologica, ci indica le due grandi lezioni della pandemia nell’intervista concessaci per l’incontro di domani sera a Bergamo per «Molte fedi». Il professor Giraud interverrà sul tema «Dopo la pandemia, ripensare lo sviluppo», con la partecipazione di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food. Il nuovo libro, in uscita in Italia il giorno seguente, si intitola Un’economia indisciplinata. Riformare il capitalismo dopo la pandemia (Editrice missionaria italiana, pp. 152, euro 16), un dialogo tra Giraud e l’economista senegalese Felwine Sarr. I tratti in comune sono la necessità di un nuovo modello di sviluppo e il postcovid.

«Siamo riusciti a sradicare il vaiolo negli anni Settanta – ricorda Giraud – vaccinando il più grande numero di persone in tutti i Paesi. Alla concorrenza di ogni Stato contro gli altri, favorita dal Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio, ndr), bisogna sostituire la cooperazione internazionale. Già nell’aprile 2020, su La Civiltà Cattolica, avevo spiegato che bisognava individuare il virus alle frontiere, nei luoghi pubblici. Che cosa ha fatto seriamente l’Europa? Ecco il risultato. Abbiamo bisogno di uno Stato stratega che anticipi questo tipo di crisi e conservi il potere, nonostante le lobby bancarie e quella di Bruxelles, di far prevalere l’interesse generale a medio termine rispetto agli interessi degli azionisti privati a termine molto breve. Questo vale per le prossime pandemie come per il disastro ecologico in corso. Questo Stato stratega deve imparare a collaborare con la società civile e il settore privato per costruire le istituzioni locali, nazionali e internazionali, di cui abbiamo bisogno per prenderci cura dei nostri beni locali e globali: la biodiversità, la sanità, il clima, la cultura».

Il nesso tra la pandemia e la crisi ecologica è evidente. La «Transizione ecologica», su cui lei ha scritto un testo fondamentale nel 2015, lo stesso anno della «Laudato si’», è entrata finalmente nel dibattito politico. Come giudica l’azione dei ministeri che hanno assunto questa denominazione in Francia, in Spagna, in Italia?

«Per quanto riguarda il vostro Paese è troppo presto per giudicare, visto che è stato solamente istituito un ministero. Per contro, da diversi anni sono già state messe in campo diverse iniziative da parte della società civile: a Roma ci sono dei cittadini che si sono mobilitati per pulire il Tevere; a Bologna e a Napoli sono state messe in atto delle iniziative sui beni comuni per inventare la città del XXI secolo. In Francia abbiamo un ministero dell’ecologia da diversi anni ma, con l’arrivo di Emmanuel Macron, è diventato una questione di semplice facciata: il governo finanzia la ricerca sui pesticidi e sovvenziona le industrie più inquinanti, come quelle del petrolio, l’auto termica, l’aereo. Però la società civile è molto attiva: proprio nel periodo in cui i gilet gialli le prendevano dalla polizia, la Convenzione civile ha fatto 150 proposte notevoli per la ricostruzione ecologica del Paese. Globalmente la società civile in Europa è più avanti della politica, che resta prigioniera dell’immobilismo delle banche. Di recente ho pubblicato un rapporto in cui dimostro che le 11 banche più grandi d’Europa andrebbero in fallimento se facessimo la transizione ecologica. Perché? Perché le banche hanno guadagnato molti soldi finanziando le energie fossili e possiedono, nei propri bilanci, centinaia di miliardi di attivi finanziari direttamente legati al carbone, al petrolio e al gas. Questo è il vero nodo del blocco europeo di fronte alla ricostruzione ecologica del nostro continente».

Il dialogo con l’economista Felwine Sarr nel nuovo libro indica come i popoli del Sud del mondo possano insegnare la transizione ecologica e il nuovo modello di sviluppo.

«L’Occidente deve ritrovare un’antropologia e un rapporto con il mondo nel quale l’essenziale sia la relazione. Ciò che mi costituisce come essere umano è la qualità delle relazioni che io intrattengo con l’altro e con la natura, non la grandezza del mio conto in banca o la misura della mia auto. Ora, una grande parte dell’Africa non ha mai perso questa esperienza antropologica fondamentale: nei concetti di Ubuntu e Ukama le relazioni con la natura, con gli altri e con gli antenati, sia nel passato che nel futuro, sono costitutive dell’umanità. Ecco quanto dobbiamo reimparare dall’Africa così come dalle popolazioni indigene dell’Amazzonia. L’altra lezione da apprendere è quella della sobrietà felice e dell’adattamento al disastro ecologico in corso. In Italia, per esempio, la mancanza di acqua potabile diventerà, negli anni futuri, un problema gigantesco, come del resto lo è già in Andalusia e in Portogallo, senza parlare della Tunisia e del Marocco. Bisogna certamente desalinizzare l’acqua del Mediterraneo per far sopravvivere l’Europa del Sud. Non potremo attraversare questa prova se non comprendiamo che “meno oggetti” significa “più relazioni”. Questo è quanto vivono da molto tempo i poveri nei Paesi del Sud del mondo ed è quello che non cessa di ripetere Papa Francesco. Egli viene dall’Argentina e sta tentando di reinsegnare a una Chiesa molto occidentalizzata il valore della relazione con gli altri esseri umani e con gli ecosistemi naturali: questo è il senso delle encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti».

Gli economisti devono tornare a studiare la filosofia, la teologia, l’antropologia?

«L’economia mainstream è diventata completamente isolata dalle altre scienze umane. Ora, nella vita vera, l’economia è intrinsecamente legata all’esercizio della politica. Il compito degli economisti non è giocare a fare i guru, ma aiutare a prendere le decisioni comprendendo le conseguenze delle differenti opzioni: bisogna alzare i tassi di interesse? Regolare la finanza? Finanziare un green new deal in Italia? Invece di fare questo l’economia mainstream tenta di farci credere che ci sia solo una soluzione, giustificata con teorie senza fondamento, che alla fine favorisce sempre gli azionisti. Questa economia si sostituisce alla deliberazione democratica ed è diventata una pericolosa ideologia religiosa. Se vuole ritrovare un vero statuto di scienza umana e un’utilità sociale, deve riapprendere a dialogare con la sociologia, il diritto, l’antropologia, la filosofia. E anche con la teologia, visto che il diritto europeo è stato copiato da quello canonico. Questo è il modo migliore, per molti economisti miei colleghi, di abbandonare l’atteggiamento dottrinario, nel quale si sono rinchiusi, che li ha trasformati in sacerdoti secolarizzati di una religione pagana, il postliberalismo, di cui gli dei sono i mercati finanziari e i grandi sacerdoti i banchieri centrali».

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