Guidi: «Si fotografa l’altro, non se stessi
Ma bisogna mettere a tacere le parole»

Il grande fotografo cesenate ha inaugurato ad Astino la sua mostra «Cinque viaggi. 1990-1998». Curata da Corrado Benigni, in 60 scatti ripercorre un tratto di geografia lombarda in anni di trasformazioni decisive.

Di lui non si trovano molte foto, e tanto meno belle: già questo dice molto. Quella di Guido Guidi è il contrario del tipo di fotografia alla quale siamo abituati: le sue immagini non sono mai dei «selfie», o forse lo sono in senso molto lato: in primo piano non c’è l’autore dello scatto che, anzi, si potrebbe dire che lui dedichi buona parte del suo lavoro a scomparire: «Nel momento in cui fai, disegni o fotografi, sei quella cosa che cerchi di riprodurre» dice. «Non ci sono più io. Se io sono pittore sono nel pennello, se sono fotografo sono nella macchina fotografica. Sono fuori di me. È un’iperbole, ma solo nel momento in cui sono fuori di me posso essere più vicino alle cose».

È un po’ così Guidi, tanto riservato da essere un autore sociale; tanto concreto e razionale e «illuminista» da sconfinare nel mistico. A Luca Fiore, in una bella intervista di qualche anno fa, in occasione della retrospettiva che per i 40 anni di carriera gli dedicò la Fondazione Henri Cartier-Bresson di Parigi, da uomo assolutamente laico qual è citò Gregorio di Nissa, un padre della Chiesa del IV secolo, nato in Anatolia, ovvero in una terra di confine tra Occidente e Oriente: «Gregorio diceva che le idee creano idoli, mentre lo stupore apre alla conoscenza. Lo stupore è la reazione che hai davanti alle cose guardandole con quel surplus di intensità... che ti porta a conoscere. Quell’intensità dimentica di tutto che è solo sguardo».

Classe 1941, cesenate, Guidi ha studiato architettura a Venezia, dove si è formato con Carlo Scarpa, e ha conosciuto lo storico della fotografia Italo Zannier, che sono diventati due punti di riferimento per lui. Di solito viene annoverato tra i fotografi del «Viaggio in Italia», famoso libro-mostra del 1984, manifesto della «nuova fotografia» europea che aveva come pivot l’emiliano Luigi Ghirri, e raccoglieva autori come Olivo Barbieri (la cui opera abbiamo visto ad Astino giusto un anno fa), Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Giovanni Chiaramonte, Mario Cresci, Vittore Fossati, Mimmo Jodice, Fulvio Ventura, Claude Nori, Cuchi White e altri. Ma Guidi non è solo un «fotografo di paesaggio», per quanto aggiornato, e lo si avverte subito: c’è molta architettura, anche molta pittura sul fondo delle sue immagini. Dialogando, dal cilindro della sua vasta cultura escono con naturalezza uno scrittore come Carlo Emilio Gadda e Piero della Francesca, maestri americani della fotografia come Edward Weston e filosofi come Merleau-Ponty.

Guidi ha inaugurato venerdì scorso, ad Astino, la sua mostra «Cinque viaggi. 1990-1998», voluta da Fondazione Mia, curata da Corrado Benigni (fino al 30 settembre; catalogo pubblicato dall’editore inglese Mack, con testi di Benigni, Roberta Valtorta, Antonello Frongia): 60 fotografie che uniscono immagini nate nell’ambito di due progetti pubblici di documentazione – Archivio dello spazio e Milano senza confini – e altre foto mai esposte né pubblicate, che Guidi ha selezionato per l’occasione da negativi dell’epoca. La mostra ripercorre un tratto di geografia lombarda, un polo di sviluppo economico che in quegli anni affrontava profonde trasformazioni.

«Abbiamo selezionato essenzialmente - spiega - il lavoro fatto con la camera formato 20x25 centimetri. Abbiamo aggiunto solo alcune foto in bianco e nero eseguite con una 6x6».

Un formato più «da studio» che da reporter: ha deciso subito di fare un altro tipo di fotografia, più meditata?

«Usare il 20x25 era un rimettersi nei panni dei fotografi più antichi, sì. Gente che lavorava lentamente. Lo strumento stesso mi costringeva a un altro passo. Quando avevo 15 anni, mi feci regalare da uno zio una macchina fotografica: ed era già una 6x6, a soffietto, con l’astuccio in cuoio. Poi, come tutti, sono passato al formato 24x36, lavorando molto frettolosamente, a raffica: sono andato avanti almeno dieci anni così. Però producevo troppo materiale, e quando andavo in camera oscura mi accorgevo che non avevo il tempo di stampare tutto: così ho deciso di cambiare modo di lavorare. Passare al grande formato mi costringeva a evitare di fare migliaia di scatti a vuoto».

Voleva cominciare a mettere ordine nella visione già a partire dalla ripresa?

«William Eggleston dice che se fai due scatti dello stesso soggetto, poi esci pazzo quando devi sceglierne uno e scartarne un altro».

A tanti anni di distanza, cosa pensa di quell’ormai famoso «Viaggio in Italia»?

«È un libro che ha fatto storia, ma mi chiedo spesso come mai. Dal punto di vista editoriale si è visto di meglio. A me non piace chi mette Ghirri su un piedestallo, o al vertice di una piramide. Io ho certamente trasmesso qualcosa a lui e lui a me. Come si fa a non influenzarsi se si vive nello stesso periodo e si pratica lo stesso mondo? Come dice Carlo Emilio Gadda, “le parole sono come gli asciugamani in camerata: quel che è mio oggi è tuo domani, e viceversa”. Si può forse dire che eravamo una banda, abbiamo condiviso delle cose, ci siamo regalati a vicenda dei punti di vista. Che poi ognuno ha rifatto e ricommentato a modo proprio. Io però non credo che la nuova fotografia italiana sia nata con quel “Viaggio in Italia”, nel quale io stesso ho inserito lavori realizzati anche dieci anni prima. Ho cominciato a fotografare da ragazzo, negli anni ’50, dopo aver studiato architettura e pittura. Sono passato alla fotografia nel ’67: erano gli anni della sperimentazione, della ribellione. La fotografia nuova per noi era non guardare ai genitori, piuttosto ai bisnonni: Cartier-Bresson l’avevamo messo al bando, preferivamo Eugène Atget».

Il «parricidio» era un gesto tipico di quella generazione sessantottina. Lei ama molto un pittore maestoso e antico come Piero della Francesca. Perché?

«Diciamo, mutuando un’espressione di Bernard Berenson, che di lui mi piace la non-eloquenza».

La fotografia di oggi è invece molto eloquente. Magniloquente...

«Non amo le immagini che hanno bisogno del libretto delle istruzioni. E c’è, in effetti, questo privilegiare l’artista fotografo...».

Lei preferisce «prestare attenzione alle cose»?

«Wim Wenders dice che guardare è avvicinarci alle cose, pensare è allontanarsene».

Terribile.

«Secondo Plutarco il filosofo Democrito, per ragionare meglio, pensò bene di accecarsi. Merleau-Ponty dice che quando tu guardi un sasso tu sei quel sasso. Se lo pensi, invece, già non lo sei più. Fare fotografia è un po’ entrare nell’altro. Anche se l’altro è la materia inorganica. Essere l’altro. Quando realizzi un ritratto, non dovresti essere tu a farlo: attraverso una sorta di empatia, di risonanza dovresti essere il soggetto che hai di fronte. Io in quanto fotografo, anzi, in quanto individuo sono stufo di essere me stesso, ciò che mi interessa è entrare nella pelle degli altri. Walker Evans diceva che un fotografo deve essere una sorta di medium. Non sei più tu che fai l’operazione, ti lasci guidare dalle cose. E quando l’operazione è finita ti dimentichi tutto. La cultura orientale mi ha aiutato a fotografare. Così come mi ha aiutato il nuoto. La fotografia si fa con l’acqua. Almeno quella su pellicola, analogica».

Sviluppo e stampa erano processi in ambiente «umido».

«Infatti oggi ho qualche difficoltà a imparare le regole del digitale. Il fluido dell’acqua, io penso, rimane misteriosamente nell’epidermide della stampa. Nella stampa digitale, invece, questa “morbidezza” scompare. Non sono solo io a dirlo. Ricordo che nel 1979 a Venezia vidi una mostra di Edward Weston, e c’era una sua foto che non avevo mai visto prima: una tinozza di legno con l’acqua che rifletteva del muschio che creava come il profilo di un satiro, di un mostro... Qualche giorno dopo ero in camera oscura a sviluppare le mie foto e ho avuto un lampo: ho immaginato il piacere di Weston mentre vedeva uscire dall’acido quella foto di una tinozza d’acqua in cui compariva questo volto... Credo che questo abbia cambiato la mia percezione della fotografia»

Lei non ama le immagini spettacolari: meglio Stephen Shore di Joel Meyerowitz - ha detto.

«Penso che il fotografo debba stare un po’ nell’ombra. Oggi c’è questa tendenza di mettersi davanti, e si eccede. Ma ciò avviene anche in altri campi, basta guardare l’architettura».

Non conta più l’edificio costruito ma il gesto dell’«archistar»...

«La fotografia è una cosa semplice, lontana dall’edonismo e dalla spettacolarità. Come direbbe Jannacci, “l’è una roba minima”...».

Oggi sui social network si postano milioni di foto al giorno non per cercare di guardare e di comprendere il mondo, ma per mostrare sé.

«C’è una forma di narcisismo eccessivo, che viene forse dalle belle arti. Io penso che la fotografia dovrebbe avere più a che fare con la ninfa Eco che con il suo innamorato Narciso. Sull’invasione delle immagini nel nostro mondo, sul fatto che già negli anni ’80 il loro proliferare incontrollato rendeva il mondo quasi invisibile, proprio Luigi Ghirri ha detto molto. Ma il mondo diventa invisibile perché ne parli troppo. Se fai troppa attenzione alle parole, tutto diventa invisibile. Se invece cominci a guardare...».

Eccolo qui Guido Guidi. Ora si è scattato davvero un selfie.

© RIPRODUZIONE RISERVATA