Inti-Illimani Histórico: «L’inno cileno ispirato a un’aria di Donizetti»

IL CONCERTO. La formazione del leader Horacio Salinas domenica sera al teatro di Villa d’Almé (già sold out). La musica del gruppo fra folclore latino e andino.

La storia che lega Horacio Salinas agli Inti-Illimani sembra infinita. Oggi il musicista è alla testa della formazione Inti-Illimani Histórico, una costola importante di una famiglia che si è divisa, ma resta a testimonianza di un grande percorso artistico che continua tra innovazione e tradizione. Salinas, direttore musicale del gruppo dal 1968, ha scritto molte delle memorabili melodie e canzoni che dagli anni Settanta sono diventate bandiere di più generazioni. Accanto a lui oggi ci sono elementi storici come José Seves e Horacio Durán, insieme ad altri valenti musicisti latini. Il ritorno in Italia, domenica prossima al «Teatro Serassi» di Villa D’Almè per «Molte Fedi» (inizio ore 21; biglietti esauriti), accade in un momento particolare, a 50 anni dalla caduta di Salvador Allende e dalla presa di potere di Pinochet. La fine di un sogno, l’inizio di una lunga dittatura in Cile.

L’anniversario è importante. L’11 settembre del 1973 Salinas e gli Inti-Illimani sono in Italia, quel giorno in visita al Cupolone. Rimarranno nel nostro paese fino al 1988 coniugando sapientemente musica e lotta politica, diventando la voce della dissidenza in esilio. Rappresentano una delle realtà musicali più incisive tra quelle nate nel continente Latinoamericano. Qualcuno a proposito della musica di Salinas e compagni parla di «folklore in cerca di patria», ma la Patria c’è ed è il folk andino e latino in genere, una ricerca che si riverbera nei suoni, nella strumentazione, accanto al temperamento popolare, alla vocazione politica. La storia di sviluppa tra due estremi: «Alturas» da una parte, «El Pueblo unido jamàs serà vencido» dall’altra, tra il folklore e la Nueva Canciòn.

«Tutti ricordiamo la complessità dei sentimenti di quel giorno», spiega Salinas. «Era in programma un nostro concerto a Roma, nel quartiere di San Lorenzo. Suonammo comunque, trapassati da questa sensazione di dramma. Avevamo appreso del golpe camminando per strada, la notizia della morte di Salvador Allende ci aveva colpito. Poco dopo avevamo saputo che anche un grande amico, il cantautore cileno Victor Jara era stato trucidato. In quei giorni abbiamo capito qualcosa di importante: la solidarietà degli italiani. Dovevamo tornare in Cile alla fine della tournée europea e non sapevamo più cosa fare. L’Italia ci ha aiutato. I compagni di Roma ci hanno trovato una sistemazione qua tra di voi».

Quel tour, che fors’anche era il primo, durerà fino al 1988.

«(ndr: ride) Un po’ kafkiano in effetti. Abbiamo vissuto qui in Italia la stagione durissima della contestazione estrema e di sinistra. L’abbiamo anche un po’ sofferta. Facevamo i concerti e gli organizzatori si lamentavano perché arrivavano quelli di Autonomia operaia e non volevano pagare i biglietti. Qualche volta noi stessi siamo stati contestati. La musica doveva essere gratis. Qualcuno diceva che eravamo alleati del potere. Ma è vero che noi facevamo un lavoro artistico internazionale, abbiamo suonato in 60 Paesi nei 18 anni che abbiamo vissuto in Italia. Il fatto più interessante della nostra stagione italiana è che abbiamo portato una parte della cultura musicale dell’America latina. La vostra curiosità è stata importante per noi al fine di sviluppare un lavoro di ricerca, di concerti che andavano anche oltre la questione politica. Quella è passata ed è rimasta la musica che ha la formidabile caratteristica di esser atemporale. Noi ancora suoniamo pezzi nati in quell’epoca, la forza della musica trascende la politica, diventa messaggio culturale. Certo abbiamo avversato la dittatura di Pinochet, ma in parallelo il lavoro artistico e musicale è andato avanti in questi 56 anni di vita».

La vostra musica partiva da un forte radicamento, evolveva sul filo del tempo, dei diversi linguaggi latini. Lei che idea s’è fatto della sua musica?

«Il termine world music che ha inventato Peter Gabriel in Inghilterra ha una sua logica. Lui era interessato alla fonte della musica. La nostra è nata in libertà, alla luce d’influenze non soltanto cilene. Siamo una banda che fa una sintesi dei tanti aspetti della musica latino americana. In Europa questo interesse si è rivolto anche al grande cantiere della musica folk di matrice celtica, mediterranea, partenopea. La curiosità è costante nel nostro gruppo ed è un’attenzione che va oltre l’idea museale, interessa direttamente la vita della comunità».

La musica oltre i confini, senza sradicamenti di sorta però.

«Il Washington Post, dopo un concerto al Kennedy Center nell’82 del Secolo scorso, ha scritto che il nostro era una sorta di folklore immaginario, alla ricerca di un Paese utopico. E questo è vero. La nostra musica non appartiene a un luogo specifico, semmai appartiene a un luogo che vogliamo trovare, che stiamo cercando, con sentimenti nobili, alimentando la visione di una vita migliore, giusta, dove i diritti umani abbiano tutto il rispetto che meritano».

Che effetto fa tornare a Bergamo?

«Abbiamo tanti ricordi lì. E’ una città che amiamo per tanti motivi. Tra l’altro non tutti sanno che chi ha scritto l’inno cileno, un compositore spagnolo dell’Ottocento, ha preso in prestito una melodia da un’aria della “Lucrezia Borgia”, l’opera di Gaetano Donizetti. Il nostro inno nazionale è un po’ bergamasco».

© RIPRODUZIONE RISERVATA