«Raffa in the Sky»: luci, costumi e canzoni della «rivoluzione» gentile della Carrà

LO SPETTACOLO. Una storia incisiva dal ritmo serrato. Al Donizetti il debutto nella serata di venerdì 29 settembre della «fantaopera» sulla soubrette che ha cambiato la vita degli italiani. La protagonista sul palco con la sua valigiona in una scenografia scintillante.

«Raffa in The sky» ha debuttato ieri sera al Teatro Donizetti, opera in due atti sotto il segno di Bergamo Brescia Capitale della Cultura. Gli autori Alberto Mattioli e Renata Ciaravino, con certo estro, l’hanno definita «fantaopera», genere melodrammatico creato per l’occasione, come non di rado è successo. A noi, a un primo bilancio, sembra soprattutto un’opera simbolica. A partire dalla parte letteraria e dal soggetto. «Simbolo» per definizione è la protagonista, Raffa.

Il mese di battage senza riserve che ha accompagnato questo debutto (primo di quattro recite, fino all’8 ottobre) ha ricordato in lungo e in largo il valore simbolico, prima ancora che storico di Raffaella Carrà, il suo messaggio, i contributi che il suo personaggio,«tripartito» tra ruolo di ballerina, presentatrice e cantante tv (in una sola parola soubrette, che, è stato pure precisato, suona assai riduttiva). La Carrà, infatti, nella vicenda costruita con alacre dedizione dai due librettisti, è quella che ha terremotato, a colpi di gentilezza ed eleganza, i costumi e le abitudini degli italiani, non ultimi, quelli sessuali, vincolati da vecchie e bigotte morali: senza far barricate ha rivoluzionato le nostre vite. «Simbolico» quindi il fatto che venga da un «Altro» mondo, la mitologica e aggiornata Arkadia governata dal dio Apollo XI, inviata in via eccezionale per convertire gli uomini alla bellezza e all’arte, evitando inutili e sanguinose guerre.

«Simbolico», esplicitamente, è il collegamento che la musica di Lamberto Curtoni disegna con una ampia citazione da Lucia di Lammermoor (poco dopo l’ouverture all’inizio), la più nota tra le drammatiche eroine di Donizetti, sacrificate nel nome (maschile) del potere. Questo è anche, stando a Francesco Micheli, regista e ideatore primo del progetto, il legame con la terra bergamasca nell’occasione della Capitale della cultura. Il suo è uno spettacolo con la maiuscola, serrato nel ritmo e prodigo di soluzioni inedite e incisive, contornato di lustrini e scintillii.

Per il compositore Lamberto Curtoni, alla sua prima produzione melodrammatica, il cimento non era proprio semplice. L’ouverture occhieggia a Britten, mescolando i motivi principali con un tocco ironico e con certa leggerezza. Diafano, arcadico (e arcaico) si propone il coro - affidato ai Piccoli Musici di Casazza diretti da Mario Mora - appostati a mezza altezza come voci eteree, calate dall’alto, appunto. I recitativi stentano a trovare una precisa collocazione stilistica, sembrano ancorarsi alla lezione di Part, in qualche passaggio. Ma in tutta la prima parte l’orchestra diretta da Carlo Boccadoro non regala spunti incisivi e pregnanti.

Raffa in the sky: le foto dello spettacolo

Gianfranco Rota

Il coro e il suo candore dominano diafani, dando voce, si direbbe, alle luminose origini di Raffa e delle sue prime canzoni. Raffa, affidata alle abilità teatrali e canore di Chiara dello Iacovo, atterra sulla terra con la sua valigiona (da emigrata, proprio come i due meridionali emigrati dal Sud al Nord, Carmela, il soprano Carmela Remigio, e Vito, il baritono Haris Adrianos, tutte voci, come le altre in campo, già sperimentate in precedenti edizione del Festival Donizetti). Storie parallele, simili e diverse, quelle di Raffa e dei due fidanzati e poi coniugi: simbolo degli umani magnetizzati dal piccolo schermo e della diva che seguirà la sua missione sulla terra, abbandonando Apollo e il suo regno.

La romanza di Vito, col suo dinamismo e un certo profilo, è tra le pagine che si fanno notare di più del I atto. L‘impressione, che resta al termine dei due atti è quella di un patchwork musicale, teso al fine evidente di un’opera eminentemente celebrativa. Alcune citazioni, come quella della popolare marcia nuziale di Wagner, o del lago dei cigni di Caikovskij, restano un po’ sospese: per lo meno al primo ascolto non se ne coglie la ragione.

La trama, piuttosto avara di spunti drammaturgici, non aiuta la narrazione musicale. La quale si accende e trova spunti più vivaci anche per la fantasia musicale soprattutto nel II atto, sia per la parte di Luca, figlio omosessuale della coppia (il mezzosoprano Gaia Petrone, ovviamente ruolo en travesti), che solo in fine riuscirà a confessare il suo orientamento. E poi per il Grande censore affidato al tenore Dave Monaco (già in Faliero) caricato fino alla macchietta, con le sue ossessioni moraleggianti.

Se ci leviamo alcune agiografie di troppo (il coro «Sei una diva anche per noi» che assomiglia molto a un canto liturgico) i colpi di scena, musicali, quasi più che del libretto, regalano buoni effetti proprio nel finale del II atto, mentre le dotte imitazioni neo barocche del finale primo, per quanto in stile concertato secondo pragmatica, sanno di artificio. La Regia di Micheli «è l’opera», nel senso che, tra costumi, luci, coreografie, dà corpo (oltre che anima) all’idea, tra lustrini, luci della ribalta e interni familiari e pop(olari). Le compagini orchestrali - Sentieri Selvaggi e Donizetti Opera - sotto la guida pragmatica e funzionale di Carlo Boccadoro forniscono con efficacia il rispettivo apporto.

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