Nella memoria degli avi le radici del malessere

LA RECENSIONE. Il malbianco è «un fungo, un parassita, assomiglia a una nebbia che scende sulle foglie, sui germogli e sui frutti, riveste l’albero con un feltro bianco e ne fa sparire i colori». È così che mangia i castagni. Ma bianco è anche il colore della vergogna, «il pallore di quando il flusso sanguigno al cervello diminuisce e stai per perdere i sensi».

Marco Petrovici è il protagonista ultimo (in senso cronologico) dell’ultimo romanzo di Mario Desiati, «Malbianco» (Einaudi, 2025, pagine 388, euro 21). L’autore, premio Strega 2022 per il suo «Spatriati» (ivi, 2021), lo ha presentato a Bergamo in occasione dell’ultima Fiera dei Librai. Anche Marco Petrovici è, a modo suo, uno spatriato. Uno sradicamento che ha radici lontane, antiche, nella storia e nei nomadismi degli avi. Quarantenne, Marco vive a Berlino, dove è approdato dopo anni di giri per l’Europa, esempio di «nomade digitale», fluttuante nell’indistinto anonimato delle multinazionali del settore.

A Berlino, comincia a soffrire di svenimenti improvvisi ed immotivati. Dal male degli svenimenti, ne deriva un secondo, cioè la paura di perdere i sensi, nelle situazioni più imbarazzanti. Da qui attacchi di panico, senza dire della facilità all’ansia in eccesso e dei pensieri intrusivi. Per completare un quadro topico della distimia, la sua immagine di sé è quella di un «fallito totale, un buono a nulla, un fuggitivo, un vile». Deve misurarsi, ogni giorno, con la «colpa» di non essere il figlio che i suoi genitori desideravano. Genitori che non perdono occasione per chiedergli quando sarebbe tornato a casa. Tra pressioni familiari, il disagio psicologico che si conclama negli svenimenti, e i cronici sensi di fallimento, Marco a casa ci torna, a Taranto. Un po’ anche perché pienamente adulto, «sviluppato», ha il sospetto di non essere mai riuscito a diventarlo. L’epifenomeno della perdita dei sensi induce una ricerca sull’eziologia del suo malbianco, sul gaddiano «groviglio» delle cause. Uno sforzo controcorrente rispetto all’eufemistica «omertà» familiare, a quella «pseudologia» a cui ha sempre fatto ricorso: l’immaginazione «dei timidi», l’arte cara «ai mitomani, ai chiusi, ai solitari e a qualche scrittore», grazie alla quale i vuoti si colmano con l’invenzione. Il viaggio a ritroso, che risale alle vite, ai traumi, agli sradicamenti, degli antenati, sino agli orrori della campagna di Russia, è la materia prima del libro.

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