Scoprire l’antica Roma attraverso i suoi sapori

Un originale itinerario alla scoperta della Roma antica, dall’età repubblicana a quella imperiale, attraverso le sue abitudini alimentari e, perché no, le sue ricette estrapolate dai più grandi autori classici latini.

È la proposta di Silvia Stucchi, trevigliese, insegnante di Lingua e letteratura latina all’Università Cattolica di Milano, nel suo ultimo libro, «A cena con Nerone». Ove la controversa (anche se ormai rivalutata) figura dell’imperatore che regnò dal 54 al 68 dopo Cristo viene scelta come simbolo non tanto per i picchi raggiunti dall’arte culinaria alla sua tavola (nota anzi per una certa disinvoltura nell’uso dei veleni a fini politici) quanto piuttosto di un’epoca caratterizzata da fasto, lusso, ricercatezza e abbondanza. Requisiti sintetizzati alla perfezione dalla Cena di Trimalchione, il liberto arricchito raccontato da Petronio nel Satyricon, in un ostentato crescendo di portate al limite del paradossale e del ridicolo. Che diventa per Petronio un modo attraverso il quale raccontare, e criticare, la società del tempo attraverso le sue abitudini alimentari.

Perché quando parlano di cibo, è il messaggio di fondo del libro, gli autori latini lo fanno tendenzialmente per dire altro. Ed è in quest’ottica che dobbiamo leggerli, liberandoci di quella vera e propria sindrome che ha travolto ognuno di noi da quando programmi tv e social cavalcano il remunerativo filone dei programmi a tema culinario trasformando gli chef in star. Ecco allora che i versi con i quali Orazio si compiace di una cena frugale a base di porri, ceci e laganum diventano una celebrazione dello stile di vita frugale e moderato, come prima di lui avevano fatto Catone il Censore (severo custode del mos maiorum) e Cicerone, il quale sottolineava come il vero fine della tavola non debba essere la voluptas, il piacere alimentare fine a se stesso, quanto la delectatio, la piacevole convivialità amichevole e rilassata. Certo, poi nel volume non manca un’interessante carrellata di ricette. Tratte soprattutto da Apicio, sotto il cui nome ci è giunto il più consistente corpus gastronomico dell’età romana. Una cucina – chiaramente priva di elementi come patate, zucchero, pomodori, frutta esotica, cacao, caffè e altri prodotti approdati sulle nostre tavole in epoche successive – in parte comunque replicabile ancor oggi, sia per le materie prime, sia per la lavorazione e i condimenti utilizzati. Consegnando invece alla storia altre presunte prelibatezze (ghiri, pappagalli, murene, lingue di fenicottero o il terribile garum) capaci magari di stuzzicare la curiosità, ma certo non l’appetito nel buongustaio dei giorni nostri.

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