
La Buona Domenica / Bergamo Città
Domenica 12 Ottobre 2025
«Cibo e scrittura, così ho imparato ad accettare la vita dopo la malattia»
LA STORIA. Dopo due tumori al seno, Laura Castoldi ha aperto uno spazio di cucina naturale e ha ricominciato a scrivere.
«Ho smesso di correre e ho cominciato ad ascoltare»: quella di Laura Castoldi, di Bergamo, è una storia di trasformazione e rinascita, temprata dal fuoco di un cancro al seno «triplo negativo». Nella sua esperienza la fragilità diventa forza, non solo per sé ma anche per le persone che ha intorno e quelle che incontra nel suo locale «I Buoni Sani» in una lunga metamorfosi, che è sempre e comunque un tempo pieno di bellezza.
La vita le ha chiesto di cambiare, di combattere, e ogni volta lei lo ha fatto in silenzio, senza mai arrendersi, con coraggio e ostinazione, come una pianta che si piega al gelo ma non smette di fiorire. Oggi, a cinquantatré anni, racconta la sua storia seduta a un tavolo, davanti a una tazza di tè, con le mani che si muovono leggere mentre parla di cibo, corpo e cura.
«La malattia ha aperto un varco»
Ha lo sguardo limpido di chi non ha dimenticato il dolore, ma ha imparato a guardarlo negli occhi. «La malattia mi ha tolto tanto - spiega -, ma mi ha anche aperto un varco verso una parte di me che non conoscevo».
Prima di tutto questo, Laura viveva di parole. Era una traduttrice, e per lei il linguaggio era materia viva, da scolpire con la stessa cura con cui si impasta il pane con la pasta madre. «Mi piaceva stare nelle parole degli altri – ricorda –. Capire cosa c’era dietro, restituirlo con la mia voce. Era un lavoro silenzioso, ma profondo ed entusiasmante, che mi ha insegnato a scegliere con cura ogni singolo termine». Aveva tradotto per Einaudi anche alcune parti de «L’uomo senza qualità» di Musil. Poi erano arrivati il cinema, i sottotitoli, le scadenze serrate, le notti davanti al monitor. I figli piccoli, i viaggi, una felicità che sembrava composta e intera. «Ero sempre in movimento – dice –. Non avevo tempo di fermarmi a sentire cosa mi stesse succedendo dentro».
«Per quanto sapessi che la malattia era stata scoperta in tempo e che sarei guarita, di fronte a una diagnosi del genere ci si sente inevitabilmente sfiorati dall’idea della morte, e di fronte a questo ho pensato subito di dover reagire»
Nel 2008, il suo corpo ha iniziato a raccontare un’altra storia. La scoperta è stata quasi casuale, e un’anticipazione di un controllo programmato ha permesso un intervento tempestivo. La diagnosi completa è arrivata dopo un iter un po’ travagliato di visite, consulti ed esami, con qualche incertezza iniziale, come un punto fermo in una frase che non voleva finire. Tumore al seno, triplo negativo. «Ricordo la parola come un colpo secco – racconta –. Mi hanno detto che era una forma aggressiva di tumore, difficile da curare. Io avevo due bambini di due e cinque anni. Per quanto sapessi che la malattia era stata scoperta in tempo e che sarei guarita, di fronte a una diagnosi del genere ci si sente inevitabilmente sfiorati dall’idea della morte, e di fronte a questo ho pensato subito di dover reagire».È iniziata così una stagione di cure estenuanti: ospedale, nausea, paure, giornate sospese. Laura è ritornata nella casa dei genitori, dove tutto le sembrava più solido. «C’erano giorni in cui non mi riconoscevo. Non solo fisicamente. Era come se fossi stata spogliata di ogni identità: la madre, la donna, la professionista. Restava solo la fatica, insieme al desiderio di farcela, sempre e comunque». Quando le chiedono come abbia fatto a non cedere, la risposta arriva senza esitazione: «Pensavo ai miei figli. Non potevo lasciarli senza ricordi belli. Così cercavo di trovare un sorriso anche nei momenti peggiori, un gesto, uno scherzo. Non volevo che il cancro ci rubasse tutto».
La scoperta della cucina
C’è stato un periodo di intervallo in cui sembrava che tutto fosse tornato alla normalità. Poi nel 2012, un’altra doccia fredda: una recidiva. Così Laura ha dovuto rimboccarsi le maniche e accettare di ricominciare un’altra volta da capo. «È stato peggio, perché sapevo in modo preciso che cosa mi aspettasse. Pensavo di aver chiuso quel capitolo e invece no. Ero arrabbiata, stanca».
Un nuovo intervento, più invasivo, chemioterapia, drenaggi, perdita dei capelli. Sua figlia a un certo punto le ha chiesto di usare una parrucca: «Non l’avrei messa, mi ero procurata dei berretti di cachemire che abbinavo ai vestiti. Ma ho accettato di indossarla, perché ho capito che lei ne soffriva, e non le andava di dover spiegare a tutti la situazione. Per sdrammatizzare l’abbiamo chiamata Giuditta – racconta sorridendo –. In quei momenti, ho capito che l’ironia può salvarti la vita. Ti permette di guardare il dolore senza soccombere».
«Quando la vita si rompe – dice – puoi scegliere se cercare di incollare i pezzi com’erano, o accettare che da quella crepa entri la luce»
Dopo la recidiva, Laura ha trovato un nuovo punto di vista su di sé e sulla sua vita. È come se avesse riscoperto un’altra misura. «Quando la vita si rompe – dice – puoi scegliere se cercare di incollare i pezzi com’erano, o accettare che da quella crepa entri la luce». Come succede con l’arte giapponese del kintsugi, in cui i pezzi di un oggetto rotto vengono riparati con l’oro e acquistano un nuovo splendore, lei ha trovato un orizzonte diverso sul quale concentrare lo sguardo e la forza.
Ha iniziato a interrogarsi sul corpo, sul cibo, sulla medicina. Gli specialisti che l’avevano seguita non le avevano mai detto che mangiare potesse diventare parte della cura. L’ha scoperto da sola iniziando a studiare, leggere e sperimentare. «Ero curiosa, volevo capire. Mi sono resa conto che il cibo non era solo nutrimento fisico, ma un modo per tornare a sentirmi viva, facendomi percepire il corpo non come un nemico, ma un alleato».
Alla scuola «Sanagola» di Milano ha scoperto la cucina naturale, l’energia degli alimenti, i principi della macrobiotica. Si è diplomata come cuoca e terapista alimentare, ha continuato a formarsi, ascoltare, mescolare teoria e vita vissuta. «Non avevo nessuna intenzione di diventare una chef – sorride –. Volevo solo imparare a nutrirmi in modo diverso. Poi ho capito che questo sapere doveva diventare dono anche per altre persone. Se una cosa ti fa stare meglio fino a cambiarti la vita, non puoi tenerla solo per te»
«I Buoni Sani»
È nato così «I Buoni Sani», nel cuore di Bergamo. Non un ristorante, ma un piccolo spazio, dove il pranzo è un rito consapevole, un atto di presenza. All’inizio Laura preparava pasti da asporto prendendo in prestito le cucine di altri ristoranti nel giorno di chiusura. Poi ha trovato lo spazio giusto per lei.
«Ogni piatto – racconta – nasce da un pensiero, una stagione, una persona che ho incontrato. Non esistono menù fissi, perché neanche noi siamo mai gli stessi»
«Ogni piatto – racconta – nasce da un pensiero, una stagione, una persona che ho incontrato. Non esistono menù fissi, perché neanche noi siamo mai gli stessi». Tutto è biologico, vegetale, senza zuccheri raffinati, con dolci che profumano di riso, malto, sciroppo d’acero. Il menù cambia ogni giorno, come cambiano le persone che entrano. «C’è chi arriva dopo una diagnosi, chi è solo curioso, chi cerca leggerezza. Io cerco di ascoltare. Non preparo solo cibo, preparo tempo buono». Non a caso nel locale c’è anche un tavolo per le persone che arrivano a mangiare da sole ma colgono volentieri l’occasione di chiacchierare e scambiarsi esperienze con altri, per il tempo in cui si condivide un pasto.
«Restituire fiducia. Il corpo non è un campo di battaglia, è un luogo sacro»
I suoi corsi di cucina diventano incontri di vita. Non si parla di diete, ma di equilibrio, di emozioni, di come la cura possa iniziare da un taglio di verdura. «Una volta una donna mi ha detto che dopo aver cucinato con me aveva smesso di avere paura del cibo. Ecco, credo che sia questo il punto. Restituire fiducia. Il corpo non è un campo di battaglia, è un luogo sacro». E poi c’è la scrittura, che non l’ha mai abbandonata. «Le parole sono tornate a bussare nei mesi in cui mio padre stava morendo – racconta –. Scrivevo pagine di diario come poesie, per restare vicino a lui, per alleggerire la paura. Poi ho capito che scrivere mi curava, come cucinare». È nato così «Frammenti di vita», un piccolo libro che raccoglie i suoi testi poetici, e poi un manuale, «La mia cucina contro il cancro», scritto insieme al suo maestro. Ma le sue parole continuano a crescere anche nel quotidiano: ogni lunedì una ricetta, ogni venerdì un articolo del suo blog.
«Mi piace condividere. Credo che la conoscenza serva solo se le si permette di circolare. Faccio la mia parte di bene al mondo attraverso il cibo e la parola». È entrata a far parte anche della rete di imprenditrici «Pink in business» e della «Zona blu» che promuove iniziative di divulgazione, sensibilizzazione e raccolta fondi a favore di associazioni a sostegno, in particolare, di pazienti oncologici.
La vita come un piatto caldo
Oggi i suoi figli sono grandi, studiano all’università, e Laura si muove più leggera. Sogna di rendere replicabile il modello dei «Buoni Sani», di aprire altri luoghi, dove la cucina sia strumento di benessere, non di prestazione. «Non mi interessa la perfezione, preferisco dedicarmi alla ricerca, alla sperimentazione, alla verità degli ingredienti. Anche un piatto imperfetto può essere buono, se è fatto con amore. Così è la vita».
«La malattia non è un dono, ma può diventare una soglia che porta a qualcosa di diverso, a una maggiore consapevolezza della vita e delle scelte»
Quando ripensa alla malattia, non la nomina con rancore. La guarda piuttosto come una maestra severa. «All’inizio pensavo perfino di doverla ringraziare, perché in fondo ha aperto un’occasione di cambiamento – confessa –. Poi ho capito che dovevo ringraziare me stessa, per come ho saputo reagire. La malattia non è un dono, ma può diventare una soglia che porta a qualcosa di diverso, a una maggiore consapevolezza della vita e delle scelte».
Ogni piatto è come una frase che in molte variazioni indica sempre che si può ricominciare, anche dopo un periodo oscuro, anche dentro una ferita, perfino quando non sembra più possibile, e ritrovare schegge di meraviglia e bellezza
C’è una particolare forma di quiete nelle sue parole. Non è rassegnazione, ma attenzione, presenza. Un modo di abitare la vita come un piatto caldo: accettando che non resti mai uguale, che vada gustato nel suo momento. «Non so se si guarisce mai del tutto – dice –. Ma si può fare pace. Con il corpo, con la paura, con l’imperfezione che ci mantiene umani».
Nel suo locale, il tempo ha un altro ritmo. Le persone mangiano piano, si guardano, respirano. Laura passa tra i tavoli, sistema un fiore, racconta una storia. È ancora quella che traduce, ma ora lo fa con la vita, i piccoli gesti, l’incontro tra gli elementi: dalla lingua del dolore a quella della cura. Ogni piatto è come una frase che in molte variazioni indica sempre che si può ricominciare, anche dopo un periodo oscuro, anche dentro una ferita, perfino quando non sembra più possibile, e ritrovare schegge di meraviglia e bellezza.
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