«Il mio riscatto dal buio della vita, un’esperienza che può aiutare gli altri»

Giordano Tomasoni. L’artigiano di Castione tentò il suicidio. Forza di volontà e sport per risalire la china.

La felicità entra nel cuore come un seme - c’è ma non si vede -, poi però bisogna prendersene cura, innaffiarla ogni giorno perché possa fiorire, pazientare se non succede, affrontare l’oscurità che glielo impedisce. Giordano Tomasoni, 50 anni, di Castione della Presolana, l’ha imparato nel peggiore dei modi: «Avevo perso ogni speranza - racconta -, cercavo solo una via per porre fine alla mia sofferenza». Ha tentato un gesto disperato, ma il destino ha voluto altrimenti: si è ritrovato in ospedale con una cinquantina di fratture, fra cui quella di due vertebre, che gli ha tolto l’uso delle gambe. Avrebbe potuto considerarla una punizione, una nuova condanna, invece fin dal momento del risveglio Giordano ha capito che quella era la sua seconda occasione. Ha deciso di non sprecarla ed è iniziata la sua rinascita.

Nella sua seconda vita è diventato campione sportivo, scrittore, testimonial nelle scuole, scultore del legno. Ha trovato mille modi per testimoniare questa nuova, invincibile passione per la vita, conquistata a carissimo prezzo. Racconta la sua esperienza ai giovani per spiegare cos’è la depressione e come si possono cogliere i segnali precocemente per prevenire il suicidio. Secondo un rapporto Unicef diffuso all’inizio di agosto in Europa ci sono nove milioni di ragazzi con problemi mentali, e 3 suicidi di adolescenti al giorno, seconda causa di morte per questa fascia d’età. «La depressione è una malattia che non si vede e non se ne parla abbastanza - sottolinea Giordano, che ha due figlie di 15 e 13 anni, Vittoria e Alessia -. Ci vorrebbe più coraggio nell’affrontare questo problema e un impegno delle scuole per affiancare alle materie tradizionali anche corsi che aiutino a facilitare le relazioni interpersonali e a gestire le emozioni. È un fronte sul quale spesso i ragazzi si trovano impreparati».

La felicità, in qualche momento della vita, può essere sfuggente come la più rara delle orchidee, così molti si convincono che sia solo una leggenda. «Non è così - continua Giordano - anche se capita di pensarlo quando stai male, vedi solo buio e non sai come riemergere. A me è successo quando avevo 38 anni. Avevo un buon lavoro come falegname, ero sposato, avevo una figlia piccola e un’altra in arrivo. Eppure, all’improvviso, sono sprofondato nell’abisso, senza una ragione apparente, per colpa di questo male interiore che mi consumava l’anima. È iniziato come una malinconia, una tristezza senza nome che mi spingeva a isolarmi, a rinchiudermi in me stesso, creando un muro tra me e il mondo. Mi sentivo incompreso, non mi confidavo con nessuno. Ero prigioniero del dolore».

Ci sono tanti pregiudizi nei confronti della malattia mentale: «Molti evitano di chiedere aiuto anche quando ne hanno bisogno, per evitare di compromettere la loro posizione personale e professionale. Non vogliono assumere farmaci e nemmeno incontrare uno psichiatra, perché “lo fanno solo i matti”. C’è ancora molta strada da fare in quest’ambito».

Anche per questo Giordano ha accettato di partecipare al progetto di una studentessa dell’Accademia di Belle Arti: «Siamo andati insieme nell’ex manicomio di Mombello a Limbiate. Un luogo abbandonato, dove tra le due guerre sono stati ricoverati oltre quattromila pazienti. Ci sono ancora tracce del loro passaggio. Pensando a loro, all’esperienza dolorosa che hanno vissuto, abbiamo creato un set fotografico come azione di sensibilizzazione sul disagio psichico. Abbiamo stabilito attraverso le immagini un legame con il passato e offerto un messaggio di speranza. L’obiettivo era mostrare la possibilità di un riscatto, di una vita diversa, come quella che mi sono costruito io senza mai rinnegare il mio passato difficile».

«Ho scelto di dimenticare le cose che mi hanno fatto soffrire e di ricordare ciò che mi hanno insegnato. Mi ha sostenuto la fede»

Giordano dopo quel momento drammatico ha avuto due anni per riflettere: «Non potevo essere padre, marito, falegname in quel momento, era tutto sospeso, e ne ho approfittato per andare alle radici di me stesso, per cercare un senso. Sono stato ricoverato per i primi mesi in neurochirurgia. Ho condiviso la stanza con persone che avevano storie spesso drammatiche e molto diverse dalla mia. Ho conosciuto le loro famiglie, ho condiviso il dolore di quei momenti e questo mi ha indotto a cambiare prospettiva. Poi mi hanno spostato a Mozzo, nell’unità spinale. Mi aspettavo chissà quali attrezzature, invece mi sono ritrovato a fare i conti con la mia capacità di reagire e di riconquistare l’autonomia».

Ha intrapreso un cammino arduo: «Per prima cosa ho dovuto ottenere il perdono da me stesso e dai miei cari. Non è stato semplice, mi è servito tutto il mio coraggio. Ho scelto di dimenticare le cose che mi hanno fatto soffrire e di ricordare ciò che mi hanno insegnato. Mi ha sostenuto la fede: c’è una bellissima cappella a Mozzo e la sera quando la luce arrivava attraverso le vetrate mi fermavo lì a meditare. Consapevole di aver commesso un peccato gravissimo, sono riuscito a riconciliarmi e a trovare uno sguardo riconoscente sul presente, a non dare niente per scontato».

«Lo sport è fatto di fatica, di trasferte, ma mi sono gustato tutto il percorso. Questa bella avventura mi ha mostrato che avevo ancora moltissime possibilità da esplorare e che potevo ancora avere un’esistenza piena»

Con l’attività in palestra alla Casa degli Angeli di Mozzo è arrivata la scoperta degli sport paralimpici, che gli hanno regalato moltissime soddisfazioni. Ha vinto per due volte il Giro d’Italia in handbike, un campionato italiano e diverse maratone: «Lo sport è stato davvero per me uno strumento di salvezza. Ho provato il ping-pong, il basket, il tennis, poi lo sci di fondo e la bicicletta. Mi hanno coinvolto moltissimo, ho iniziato per gioco ma poi ho iniziato l’attività agonistica ed è nato il sogno di partecipare a un’Olimpiade. Ci sono riuscito nel 2014 a Sochi, in Russia. Sono stato molto fiero di quel risultato ma la cosa più importante non è stata la gara in sé, ma tutta la preparazione, la motivazione che mi ha spinto ad alzarmi e andare ad allenarmi anche con temperature sottozero. Lo sport è fatto di fatica, di trasferte, ma mi sono gustato tutto il percorso. Questa bella avventura mi ha mostrato che avevo ancora moltissime possibilità da esplorare e che potevo ancora avere un’esistenza piena. Mi ha donato una prospettiva diversa sulla realtà, mi ha incoraggiato ad affrontare i miei limiti e a tenere in considerazione ogni passaggio, non solo il finale di un’impresa. Prima mi piaceva tenere tutto sotto controllo, ero un mago della pianificazione, ma ho capito l’importanza di lasciar andare ogni tanto. Mi sono reso conto che bastano poche linee di febbre o una catena rotta per farti perdere una competizione, bisogna accettare la propria fragilità. Ora non partecipo più alle gare ma mi dedico ai giovani come allenatore, cercando di trasmettere anche a loro la bellezza dello sport. Così - anche grazie a questo impegno - la disabilità si è trasformata in modo inaspettato un percorso di crescita e di curiosità».

«Dedicarmi alla scrittura è stata una grande sfida per me, che dopo la terza media ho iniziato subito a lavorare. Mi ci sono voluti dieci anni per riuscire a mettere nero su bianco quello che ho provato. Mi ci sono messo d’impegno e mi è piaciuto molto»

I suoi libri «Mi spinge la salita», «Essere può bastare», «Bisogno di morire» sono nati dal desiderio di aiutare altre persone che soffrono di depressione: «Dedicarmi alla scrittura è stata una grande sfida per me, che dopo la terza media ho iniziato subito a lavorare. Mi ci sono voluti dieci anni per riuscire a mettere nero su bianco quello che ho provato. Mi ci sono messo d’impegno e mi è piaciuto molto. Questo lavoro ha avuto anche un valore terapeutico, mi ha aiutato a sciogliere alcuni nodi del mio passato e a scoprire cose di me stesso che prima non ero riuscito a mettere a fuoco. È stato insomma un bel lavoro di ricerca interiore. Ho cercato di trasmettere il mio entusiasmo, con schiettezza, senza paura di espormi. Il contrario di depressione è vitalità, perché questa malattia toglie la voglia di vivere, di scoprire e di amare».

Nella sua casa di Castione della Presolana Giordano ha creato un piccolo laboratorio di scultura del legno: «Ho iniziato per caso, costruendo un puzzle a forma di cuore per il compleanno di mia figlia. Il legno è un materiale vivo, ha un profumo speciale. Mi è piaciuto molto lavorarlo in questo modo, così ho proseguito, ho cercato di affinare la mia tecnica per migliorare». Ora costruisce piccoli oggetti di ogni forma e dimensione: è un’attività che si lega al suo passato ma ne segna anche un’evoluzione: «È un passatempo ma anche un modo per esprimere la mia creatività. Il laboratorio è un posto in cui le giornate volano via, prima immagino un oggetto e poi mi impegno a dargli vita».

«Dopo un incontro c’è sempre qualcuno che si avvicina per confrontarsi e per chiedere consiglio. Sono molte, poi, le persone che si mettono in contatto con me attraverso i social network»

Quando incontra i giovani nelle aule scolastiche, nelle biblioteche e negli oratori Giordano resta sempre stupito dalla loro attenzione e sensibilità: «Pensiamo che siano sempre immersi nella loro vita virtuale, in realtà dimostrano una grande capacità di ascoltare. Dopo un incontro c’è sempre qualcuno che si avvicina per confrontarsi e per chiedere consiglio. Sono molte, poi, le persone che si mettono in contatto con me attraverso i social network. A volte hanno da narrare una storia simile, che riguarda un amico o un familiare. A volte hanno perso qualcuno in modo drammatico e hanno bisogno di capire, di darsi risposte. Consegno a ognuno un messaggio di speranza, insisto sempre sulla necessità di chiedere aiuto e di concentrarsi sui piccoli segnali: la tristezza, la mancanza di appetito, la tendenza a isolarsi dal mondo. La nostra società preme sulla competizione e ha una scarsa tolleranza per la debolezza, che invece bisogna imparare ad accogliere e accettare. È ciò che provo a fare con le mie figlie, evitando di metterle sotto pressione».

«Non credo che esista una “ricetta” valida per tutti ma ci sono degli atteggiamenti di base, che “fanno bene” e che ho provato sulla mia pelle, come essere flessibili e aperti ai cambiamenti»

Ha imparato l’importanza di lavorare su se stesso come sulle sue sculture: «Ho ricominciato la mia vita ascoltandomi di più, prendendomi cura delle mie ferite. Ho fatto pace con me stesso, ho rivalutato la solitudine. Coltivo le mie passioni, e così mi sveglio al mattino con entusiasmo. Mi sono chiesto tante volte se esista uno stile di vita che possa salvare dalla depressione. Non credo che esista una “ricetta” valida per tutti ma ci sono degli atteggiamenti di base, che “fanno bene” e che ho provato sulla mia pelle, come essere flessibili e aperti ai cambiamenti. Così si può trovare spazio per lasciarsi sorprendere dalla vita, meravigliarsi di ogni scoperta e cogliere la felicità che ogni giorno ha da offrire e che si nasconde nelle piccole cose: l’arcobaleno, una farfalla, un sorriso».

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