Gleno, i perché del disastro

L’ANNIVERSARIO: Un tonfo fortissimo. Il buio, un grigiore sinistro che avvolge tutto e tutti, portando morte e distruzione. Sono le 7,15 di un sabato di freddo e neve, in Valle di Scalve. Il primo sabato di dicembre, il primo giorno del mese, cent’anni fa. L’inizio della fine.

La diga del Gleno si squarcia, 80 dei suoi 200 metri si aprono e da lì 6 milioni di metri cubi di acqua si riversano nella valle del Povo, con un impeto pauroso. Un disastro. Il disastro del Gleno.

Il Dezzo sparisce dentro quella massa informe di rocce, ruderi, alberi, uomini e donne trascinati a valle. A Bueggio c’è chi, dalla finestra dell’ultimo piano di casa dove si è rifugiato, vede il campanile della chiesa scivolare a valle e le sue campane suonano, suonano scosse da quel movimento, finchè la torre si spezza in due schiantandosi dentro quel fiume solido creato dallo squarcio della diga.

Oggi siamo qui a ricordare il disastro che distrusse una parte del paese di Bueggio, cancellò Dezzo e si incanalò nella strettoia della Via Mala per riversarsi nella Valle Camonica e infine nel lago d’Iseo. Quel freddo sabato che diventò tragedia, una «Terrificante catastrofe nelle Alpi bergamasche» – come titolò «Il Secolo» l’indomani – causò 359 vittime accertate, una ferita che per tanti è stato impossibile raccontare. E chi l’ha fatto, a ridosso del disastro o nei decenni seguenti, ha affidato i suoi ricordi a parole che rimandano all’oscura scena di una tempesta, «fiumi d’acqua e di fuoco, terremoto e fine del mondo».

Doveva essere l’orgoglio della valle, la diga del Gleno. Eppure in molti, tra la gente del posto, la guardavano con sospetto. Perché se tocchi la montagna,se cancelli con un lago artificiale i pascoli di Pian del Gleno, non sai come può risponderti, la montagna. Soprattutto se lavori in fretta e furia, cambi progetto e finisci i lavori prima che il progetto venga autorizzato. Soprattutto se da quel gigante di calcestruzzo armato e altri materiali, appena riempito l’invaso, cominciano a notarsi infiltrazioni, perdite d’acqua.

L’inizio dei lavori

È il 1907 quando viene chiesta la prima autorizzazione per creare uno sbarramento sul torrente Povo. La richiesta parla di un invaso serbatoio di circa 4 milioni di metri cubi in località detta Piano del Gleno, a circa 1500 metri di altitudine. Scoppia la Prima guerra mondiale e solo nel maggio 1919 la ditta manifatturiera Fratelli Viganò di Ponte Albiate Brianza, alla ricerca di fonti energetiche per la produzione del cotone, presenta il suo progetto, firmato dall’ingegnere Giuseppe Gmur, e dà il via ai lavori. Un progetto che, però, cambia in corso d’opera.

Dopo la morte di Michelangelo Viganò, allora alla guida dell’azienda, a seguire i lavori è il fratello Virgilio, ingegnere, rientrato dalla Sicilia dove aveva diretto una centrale termoelettrica. Da Palermo chiama a Vilminore il giovane ingegnere Giovan Battista Santangelo e con lui rielabora il progetto. Comincia a pensare che un impianto idroelettrico in quella zona possa rendere molto di più: basta realizzare uno sbarramento più ampio sfruttando anche altri torrenti. Più acqua uguale più energia, anche da vendere a terzi (e di energia ne serve tanta, alle ferriere della Val Camonica), oltre che per l’azienda di famiglia.

Intanto però i lavori sono iniziati – è l’estate 1919 –, il progetto è quello di una diga «a gravità» ovvero una possente muratura con spessore variabile dai 30 ai 40 metri realizzata in pietrame e malte di calce da dove l’acqua del torrente Povo sarebbe stata convogliata – dopo il primo salto di 400 metri – alla centrale di Bueggio, per poi proseguire verso quella di Valbona dopo un ulteriore balzo. Fatto lo scavo, prende forma il primo sbarramento del torrente, con una galleria centrale a volta.

Ma si può fare di più e la diga viene rivista: sarà una struttura ad archi multipli – 25 – sostenuti da piloni di quasi 30 metri in calcestruzzo di cemento, conci lapidei e rinforzi in calcestruzzo armato ogni 5 metri, struttura che andrà a innestarsi direttamente sulla diga «a gravità». Alla fine, 200 metri totali di sbarramento con due settori rettilinei di 96 e 32 metri e una parte centrale di 72 metri. La prima diga diviene così la base della seconda, «ma senza particolari ancoraggi né ammorsamenti. In sostanza sopra al cosiddetto “tampone di fondo” già realizzato in muratura in pietra viene “appoggiata” un’altra struttura, con materiali diversi e in calcestruzzo armato» specifica Umberto Barbisan nel suo libro «Il crollo della diga di Pian del Gleno: errore tecnico?» edito nel 2007.

I lavori proseguono nonostante manchino le definitive autorizzazioni, e con una nuova ditta, la Vita & Compagni che in quel periodo sta costruendo un altro impianto ad archi multipli sull’Appennino («Il passaggio di consegne – rileva Barbisan – non fu privo di polemiche e le nuove maestranze non esitarono a criticare i lavori già fatti, ma non risultano riscontri documentari tecnici sulla cattiva qualità della muratura della diga inferiore»). La diga vede quasi raddoppiare la sua altezza e l’invaso raggiunge così i 6 milioni di metri cubi.

Alle prime prove, quando si comincia a immettere acqua nel bacino, si notano delle perdite e in paese «ci si ripeteva “... ma è mai possibile che una diga nuova possa avere tutte quelle perdite?”» sono i ricordi degli abitanti del posto. Nel maggio del 1922 il serbatoio viene svuotato: si tenta di intonacare e incatramare la superficie interna del muro per limitare le infiltrazioni. Ma evidentemente non è sufficiente, se nel maggio 1923 l’ingegner Mina accompagnato dal professor Forti, durante le prove di invaso, notano una perdita d’acqua che fuoriesce dai resti di una trave di legno rimasta infissa nel muro.

Il disastro del Gleno

Le foto d’epoca della costruzione e dei danni provocati dal crollo della diga.

La diga viene ultimata e inizia a rifornire la centrale idroelettrica di Bueggio, senza alcun collaudo. Era previsto per il 21 ottobre 1923: gli ingegneri Lombardi e Sassi del Genio civile di Bergamo erano già a Pian del Gleno, ma tanto aveva piovuto che il livello del lago era aumentato oltre il limite, traboccando dallo sfioratore.

La pioggia pare non finire mai, «nell’ultima settimana piove senza interruzione giorno e notte. Tutti dicono che la diga su al Gleno non reggerà e crollerà per le perdite d’acqua che esce dalle crepe. La popolazione del Dezzo è molto preoccupata» racconterà Gerolamo Piantoni della famiglia dei Pusti del Dezzo. E intanto inizia pure a nevicare, se Fermo Bianchi di Bueggio, all’epoca ragazzino di 11 anni e mezzo, nei suoi ricordi affidati ai familiari anni fa aveva raccontato che il 30 novembre «nonostante circa dieci centimetri di neve e le nostre calzature fossero costituite da zoccoletti, decidemmo con altri tre o quattro amici di raggiungere la sommità della diga... Son convinto che saremo stati gli ultimi “visitatori” a passare su quella passerella».

Soltanto buio e vento

Gli ultimi. Il giorno dopo nessuno avrebbe scorto il biancore della neve. Solo buio, «un fumo scuro che dalla Valle del Gleno scendeva, avanzava preceduto da una specie di sibilo». Poi «un fragore, un tuono, un vento fortissimo, improvviso». Chi riuscì a sopravvivere al crollo della diga del Gleno ha conservato negli occhi e nella mente la stessa scena. Prima un violentissimo spostamento d’aria, poi l’enorme onda che scaraventa a valle anche la morte.

L’unico ad accorgersi in anticipo che l’evento tanto temuto stava per accadere fu il sorvegliante della diga Francesco Morzenti. Sentì un tonfo, poi un altro, accompagnato «da un ondeggiamento di mare, come se il livello del bacino si abbassasse all’improvviso, in un colpo solo». Provò a telefonare, ad avvertire: «Ven zò! ven zò» e corse verso la montagna. Era la diga. Lo squarcio si allargò fino a 80 metri, i sei milioni di metri cubi di acqua precipitarono nel Povo. Una catastrofe. Giù nel paese di Bueggio, giù a Dezzo dove l’acqua arriva un quarto d’ora dopo distruggendo la fornace e la centrale idroelettrica. Giù per la valle intera, poi fino a Darfo e, tre quarti d’ora dopo, era già nel lago di Iseo, dopo una folle corsa di 20 chilometri.

Alla fine si contarono 359 vittime accertate, ma in valle pensano siano state addirittura 500. Intere famiglie distrutte. Il nostro Vajont.

© RIPRODUZIONE RISERVATA