Leffe, l’epica storia dei «copertini»
Dal carretto al fenomeno commerciale

Ol «Coértì» è la figura che nella tradizione rappresenta l’operosità e l’intraprendenza della gente di Leffe, l’importante centro laniero della Valgandino. Ora che la situazione è radicalmente cambiata. Avete storie dimenticate da segnalare, scriveteci: [email protected]

Ol «Coértì» è la figura che nella tradizione rappresenta l’operosità e l’intraprendenza della gente di Leffe, l’importante centro laniero della Valgandino. Ora che la situazione in loco è radicalmente cambiata e l’industria mantiene un ruolo prestigioso sui mercati internazionali, nonostante i preoccupanti venti di crisi, di «coertì» non ne sono rimasti. Le loro vicende sono relegate nei ricordi dei più anziani o dei discendenti di quegli intrepidi, sempre raccontate con toni da favola. Parecchi di quei protagonisti nel tempo si sono trasformati nei primi industriali della valle.

«Coértì» è il termine dialettale con il quale, a Leffe, vengono ancora oggi denominati quei venditori ambulanti che esercitano stagionalmente la loro professione sin nelle più lontane contrade. L’appellativo deriva da «coérta» (coperta) e venne coniato agli inizi del ’900, per quei primi intrepidi che si avventurarono su ogni piazza a vendere l’unico manufatto locale facilmente commerciabile: la «pilusa», ossia la «coérta».

Le loro storie fanno parte della tradizione leffese. Nel racconto degli anziani la favola bella dell’industria leffese e dei «coértì» ebbe inizio nel 1796, anno in cui giunse a Leffe un soldato tedesco, tal Rudy che, per ricambiare la cordiale ospitalità ricevuta da una famiglia del luogo, svelò ad essa il segreto di lavorare il cascame di cotone con la juta. Stracci, sacchi di juta, corde, scarti della pelaia di seta e quant’altro poteva essere reperito veniva minuziosamente pestato su di un tronco d’albero al fine di ottenere una specie di cascame il quale, opportunamente trattato, veniva filato dalle donne con la rocca e il carrello, ricavandone un filo che veniva successivamente lavorato con i primi telai a mano. Erano macchinari rudimentali, poco pratici. Il prodotto finale era la coperta «catalogna», che nel dialetto locale è più comunemente chiamata «pilusa» o «baéla», un manufatto alquanto povero, di vago colore grigiastro, ideale ai mille usi e come tale prima ragione degli imprenditori e dei commercianti di Leffe.

Quell’attività tessile agli inizi stentò a prendere consistenza. L’unica persona che rivelò una certa intraprendenza fu nel 1810 Antonio Gelmi, più noto con il soprannome di «Scegolì», personaggio che la tradizione vuole discendente di quel Giovanni Maria «Scegola» che per primo apprese quella tecnica di lavorazione dal soldato tedesco.

A quei tempi Leffe era un paese come tanti altri della valle; contava circa duemila abitanti che conducevano una vita non facile, date le poche risorse. Era molto diffuso l’allevamento dei bachi da seta, «caaler», per il cui mantenimento, nel mese di giugno, venivano raccolte in gran quantità le foglie di gelso, «ol morù». I bozzoli erano poi venduti alle filande che operavano nei vari paesi della zona e anche a quella leffese dei Pezzoli. «Ol félatòe de Bachì» sfruttava la forza idraulica del torrente Rino e dava lavoro a 20 o 30 lavoranti. Altre persone si dedicavano all’agricoltura, all’allevamento o lavoravano nelle vicine miniere di lignite, gestite alla fine del secolo dall’architetto Giuseppe Botta.

La situazione di disagio spinse molti a emigrare, altri a caricarsi sulle spalle un fagotto di «piluse». Ed è a questo punto che l’incredibile racconto dei tempi pionieristici dell’industria leffese intreccia le sue trame con quello altrettanto fantastico dei primi «coértì». Qualcuno sostiene che già nel 1890 tal Battista Capponi si recava sin nella lontana provincia di Treviso a vendere i manufatti leffesi, percorrendo i vari paesi con un carretto spinto a mano. Su quelle orme, sempre più leffesi iniziarono a dedicarsi a quel mercato, vagabondando un po’ dovunque sul territorio nazionale e facendo ritorno periodicamente al paese per rifornirsi di manufatti. Sulla fine del XIX secolo erano talmente numerosi che costituivano un vero e proprio movimento commerciale.

Da quella via anche le attività produttive leffesi si allargarono progressivamente dagli ambiti «casalinghi», assumendo in un primo tempo quei caratteri propri di un rilevante artigianato e in seguito di una fiorente industria. Tra le varie aziende già si distinguevano, quelle di Angelo Capponi e Gabriele Gelmi, ma molto popolare era quella di Gabriele Gelmi «Scégolì», ai cui prodotti vennero assegnati riconoscimenti prestigiosi. Il filo dei loro manufatti era lavorato in maggior parte nelle filature di Gandino e Vertova, alle quali, precedentemente, gli artigiani leffesi avevano fatto pervenire la materia prima, ossia il cascame della più bassa qualità. Solo successivamente sorsero anche a Leffe le filature, installate nei vecchi mulini.

Agli inizi del secolo scorso numerosi erano diventati i «coértì» a Leffe; il carretto spinto a mano era stato sostituito da un moderno carro trainato dal cavallo e quella classica e tradizionale immagine di venditore ambulante era completata dalla figura di un bambino, «ol garzù» (il garzone), strappato prematuramente agli affetti familiari e alla spensieratezza della sua età. Ovunque ripetevano la storica «serata» per decantare le merci con argute espressioni e battute umoristiche dialettali.

Tra quei temerari vi erano «ol Braga Irda», ol «Nèdàl», «Orbo Ghèsèlo», «Titecòce», «Carboner», «Bérnard Giachina», «Bérnard Foga», «Poca Roba», «Scich, Stéfèn ‘e Boline», «Abramo» e «Costanza».

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