«Start up nella Silicon Valley
Ma ora basta. Farò la mamma»

di Silvia Salvi

Prima si è fatta strada nel tempio dell’innovazione tecnologica, la Silicon Valley, poi, una volta decollata la sua start up nel settore delle tecnologie medicali, ha deciso, alla «veneranda» età di poco più di 30 anni, di prendersi una pausa.

Prima si è fatta strada nel tempio dell’innovazione tecnologica, la Silicon Valley, poi, una volta decollata la sua start up nel settore delle tecnologie medicali, ha deciso, alla «veneranda» età di poco più di 30 anni, di prendersi una pausa per mettere su famiglia con il marito Giovanni Garcea, e diventare mamma di due bimbi.

Marta Gaia Zanchi, classe 1981, originaria di San Pellegrino, è cresciuta tra Zogno e Stabello, ha studiato a Milano Ingegneria biomedica ed elettronica al Politecnico e poi, per la tesi di laurea, ha preso il volo per il Canada. Nel 2006 si è trasferita in California per completare la sua specializzazione in strumentazione a risonanza magnetica per immagini medicali alla Stanford University.

Oggi, la start up che ha creato, la «Renovo Rx» che si occupa di tecnologie medicali, ha vinto il «TiE50 awards», un premio dedicato alle aziende più intraprendenti nei cosiddetti cinque mercati «verticali» (Internet, software, mobile, life sciences and energy) facendosi strada tra oltre mille candidature e distinguendosi nel settore delle «life sciences».

Di che cosa si occupa la «Renovo Rx»?

«Sviluppa soluzioni per la distribuzione mirata dei fluidi a zone selezionate del sistema vascolare periferico».

Come hanno influito i suoi studi sul percorso professionale che ha intrapreso?

«Mi ha sempre affascinato poter mettere la tecnologia al servizio della diagnosi e terapia, offrire a medici e pazienti soluzioni tecniche per la prevenzione e la cura della malattie. Volevo moltiplicare l’accesso alla salute a livello mondiale anche laddove il numero di risorse umane è limitato e allo stesso tempo consentire al paziente il massimo beneficio con il minore rischio (per esempio con tecnologie minimamente invasive o che consentono la cura del paziente cronico fuori dall’ospedale). E così sono finita, grazie a un dottorato in Ingegneria, a lavorare nel settore medicale. I miei interessi dunque vanno oltre a quelli tecnici. Questo, unito a una passione per l’imprenditoria nel puro stile Silicon Valley, mi ha portato da subito a lavorare con piccole aziende, per ultima “Renovo Rx”. Anche se ho ancora un piede in accademia: dal 2012 sono docente in un corso annuale alla Scuola di Medicina della Stanford University, dove sono Lecturer con il Dipartimento di Chirurgia».

Come è nata l’esperienza in America?

«L’esperienza negli Usa è nata dal bisogno di allargare gli orizzonti al di fuori di quelli nazionali. Mi piaceva l’idea di completare la mia formazione con un approccio più internazionale. Anche il mio allora fidanzato e attuale marito, Giovanni Garcea, sognava di iniziare la sua carriera negli Stati Uniti, più precisamente in California. I nostri sogni convergevano nella West Coast, e lì ho cercato l’ammissione a una università. Stanford fu la prima ad accettarmi, con tanto di fellowship, una borsa di studio: impossibile non accettare al volo. Dopo l’università ho fondato una ditta di consulenza in “medical innovation”, “Medinnovo”, lavorando a progetto con start up in California e alcune che dall’Italia cercavano di arrivare sul mercato americano. Poi ho conosciuto i fondatori di “Renovo Rx”. Avevano idee ambiziose e cercavano un Ceo, ovvero un direttore generale».

E poi?

«E poi è cambiato di nuovo tutto perché io e mio marito siamo “foster parents”(genitori adottivi ndr) . Nel 2013 ho adottato mio figlio, che ora ha quasi un anno e mezzo. Nel gennaio di quest’anno ho ricevuto invece in affidamento una bimba appena nata, che speriamo di poter adottare ma ancora non si sa. A seguito dell’arrivo della piccola, per potermi concentrare di più sulla famiglia, a fine febbraio ho lasciato la mia posizione come Ceo di “Renovo Rx”. L’azienda ha continuato ad avere un ottimo “track” record di successi, cosa che ha reso più semplice la decisione di lasciare e aiutare il team a trovare un nuovo successore. Il mio lavoro con l’azienda è culminato con il “raise” di più di un milione di dollari, che l’ha posizionata stabilmente per la sua prossima fase di sviluppo senza di me».

Come immagina il suo futuro professionale?

«Mantengo viva “Medinnovo”, la mia azienda di consulenza che avevo creato prima di diventare Ceo, anche se in questo momento sono interamente concentrata su famiglia e attività accademiche. In futuro, chissà: il dinamismo della Silicon Valley mi è congeniale, spero di continuare a potermi muovere agilmente dove mi porta il cuore e dove so di potermi rendere più utile alle persone che condividono i miei interessi».

Ritiene che questi sviluppi importanti nella sua carriera sarebbero stati possibili anche in Italia?

«Difficile rispondere considerato che non ho mai vissuto la realtà del dottorato e dell’inserimento nel mondo del lavoro in Italia. Potrei citare alcune statistiche: per esempio l’indagine Adi 2013 mette in luce che la percentuale di dottorandi in Italia che non ricevono alcun finanziamento è una delle più alte in Europa e, quando un finanziamento è percepito, l’ammontare è inferiore all’importo che i colleghi ricevono in qualunque altro Paese. A Stanford, la mia borsa di studio (nel primo anno) e l’assegno di ricerca (il secondo e terzo anno) coprivano interamente la mia formazione annuale, quasi 30 mila dollari, e avevo un discreto stipendio in grado di consentire a qualunque dottorando una rispettabile indipendenza economica. Pochi mesi prima della fine dei miei studi mandai il mio curriculum a diverse aziende in California e in Italia: ebbene, dall’Italia non arrivò mai nemmeno una risposta, nemmeno un “grazie della considerazione”, mentre riuscii a trovare un’ottima opportunità in California, nonostante fosse il momento più nero della crisi economica statunitense. Ma forse l’indizio più forte che l’Italia ha meno opportunità è che molti miei amici e compagni di scuola, molto più brillanti di me ma rimasti nell’industria medicale del nostro Paese, lamentano la sensazione di precarietà del loro lavoro e il non vedere riconosciuto (non si parla solo in termini economici) il sacrificio messo nei lunghi anni di studi di dottorato. Conosco anche felici eccezioni, ma sembrano essere, appunto, eccezioni. Ho una grandissima ammirazione poi per questi piccoli imprenditori che si sono affermati professionalmente nonostante un ambiente che, credo, offra meno opportunità, meno sostegno economico e maggiori ostacoli».

IL PROGETTO BERGAMO SENZA CONFINI

Essere più vicini ai bergamaschi che vivono all’estero e raccogliere le loro esperienze in giro per il mondo: è per questo che è nato il progetto «Bergamo senza confini» promosso da «L’Eco di Bergamo» in collaborazione con la Fondazione della Comunità Bergamasca. Per chi lo desidera è possibile ricevere gratuitamente per un anno l’edizione digitale del giornale e raccontare la propria storia. Per aderire scrivete a: [email protected].

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