Sul volo Ryanair depressurizzato
Il racconto: «Paura allo stato puro»

«Eccomi, sono qui…non è un modo di dire ma dirlo oggi è fantastico. Cerco di tradurre in parole la paura, le emozioni, le sensazioni provate mercoledì durante il volo da Orio a Nottingham». Inizia così la lettera che Franca Perletti ha inviato in redazione per raccontare il terrore provato in quegli attimi.

Eccomi, sono qui…non è un modo di dire ma dirlo oggi è fantastico. Cerco di tradurre in parole la paura, le emozioni, le sensazioni provate mercoledì durante il volo FR 1703 da Orio a Nottingham. Sono partita come sempre tranquilla e serena. Quante volte ho fatto questa tratta in aereo? Tantissime durante questi tre anni. Tanto serena che a volte non mi accorgevo di decollare o atterrare, ma mercoledì... Ho provato davvero, e per la prima volta in vita mia, cosa vuol dire avere paura. Ma andiamo per ordine di cose. Il volo decolla regolarmente. Le hostess spiegano ormai meccanicamente le procedure in caso di emergenza. A volte non le ascolto nemmeno. Tanto, mi dico, se succedesse qualcosa figurati se hai tempo di seguire quello che ti dicono. A bordo i passeggeri sono tranquilli, vocianti, soprattutto i numerosi bambini, tra cui una neonata in braccio alla sua mamma. Le assistenti di volo iniziano a preparare i carrelli delle vivande. E io penso che col freddo che ho avuto prima di salire a bordo una buona tazza di caffè è quello che ci vuole. Aspetto che arrivino al mio posto. Stiamo sorvolando le Alpi ancora innevate in molte parti. Uno spettacolo a cui sono abituata, ma che ogni volta mi affascina. Sono lì, immense, silenziose. Ma qualcosa accade. Sento improvvisamente come una folata di vento gelido. Mi stordisce. In un millesimo di secondo mi domando, stupidamente, chi può aver aperto un finestrino! Ma tutto poi succede rapidamente. Il caldo che prima si sentiva a bordo sparisce e si fa largo una strana sensazione; il fiato che manca, la sensazione di perdere i sensi, l'incapacità di parlare. Poi un «clak» e improvvisamente sopra a ogni posto si apre lo sportello e le maschere di ossigeno si presentano a ognuno di noi, pronte per essere indossate. Le vertigini si fanno più intense, mi stordiscono. Mi sembra di svenire. Alcuni bambini iniziano a piangere, la decompressione crea loro i primi disagi. Io ho imparato a compensare soffiando col naso, ma in questo caso non riesco molto a limitare lo scompenso. Prendo la maschera e la indosso cercando di schiacciarla il più possible vicino al naso e alla bocca come ho sempre sentito dire durante le dimostrazioni; per essere sicura uso anche l'elastico in dotazione. Ma quello che da questo momento in poi succede è davvero connotato dalla paura allo stato puro! Mi guardo intorno e vedo solo volti terrorizzati. Il mio vicino mi guarda e capisco che la sua apparente sicurezza in effetti non è tale. Riesco solo a fargli un cenno per chiedere cosa stia succedendo. Provo a togliere la maschera ma sto malissimo. Manca assolutamente l'aria, è come se i polmoni si fossero collassati e tu annaspi nel vuoto. Allora rimetto la maschera e cerco di respirare tutta l'aria possibile. Ma non basta. L'aereo inizia a scendere velocemente di quota e questo comporta continui sbalzi, continui vuoti d'aria (come se già non bastasse quella che davvero non c'e'!). Guardo fuori dal finestrino e vedo che sotto di noi ci sono le cime delle Alpi, che prima osservavo e che ora mi terrorizzano. Cerco di capire cosa stia succedendo. Anche le hostess si sono sedute e hanno la maschera. Una pare un po' spaventata, le altre appaiono più tranquille. A un tratto sento una voce alta provenire dalle piccole casse acustiche posizionate sopra ai sedili: «Mayday, mayday….emergency landing!». Capisco solo queste poche parole...e bastano! Bastano per farmi capire che la situazione è seria, che il pilota sta avvisando che sta cercando un punto per un atterraggio d'emergenza.

E allora riguardo fuori dal finestrino e mi chiedo quale punto possa esserci tra quelle montagne per atterrare! «Mayday…mayday». Ma queste parole nei film che ho visto non erano dette in caso di estremo pericolo? Perché le dice ora? Intanto l'aereo scende e gli sbalzi si fanno più frequenti. Inizio a tremare, a schiacciare di più la mascherina sulla bocca e mi sembra che l'aria non esca nemmeno più. Prendo anche quella scesa sopra il sedile di fianco, non occupato, e riprovo a respirare. Sento che il tremore sta prendendo il sopravvento. Inizio a dare pugni contro il sedile di fronte, ho paura davvero e ho paura di non riuscire a capire cosa fare e cosa sta davvero succedendo. Si dice che quando sei in punto di morte riaffiorano alla mente, come in un film, scene delle tua vita. E così è stato. Non ho più pensato al volo, ma alle persone della mia vita, a come sarebbero state se in quel momento fossi morta, alla loro incredulità, al loro dolore, alla loro disperazione. E stavo ancora più male pensando a loro. In pochi secondi mi sono detta che se questa era la mia ora, stranamente avrei voluto che succedesse in fretta, che lo stordimento fosse ancora più forte tanto da perdere davvero e per sempre i sensi. Non avrei visto e sentito più nulla. Forse sarebbe davvero stato meglio così. Il tremore dentro e fuori di me ha ormai preso il sopravvento e mi accorgo che non ho più una goccia di saliva nella bocca. Faccio anche fatica ad aprirla per respirare. Riguardo il mio vicino. Ha le mani serrate l'una nell'altra e guarda fuori. Lo guardo e con gli occhi gli chiedo dove siamo. Si toglie la mascherina e dice solo: «Ancora qui sulle Alpi». Dagli altoparlanti il pilota dice qualcosa, la voce mi pare meno concitata, ma ancora non capisco (perché tengono sempre la voce alta e le parole si confondono?), riesco solo a sentire «under control»... sotto controllo! Sì, ma sotto controllo cosa? Dove stiamo andando? Dove atterreremo? Ancora stupidamente penso che sono partita indossando una maglietta a maniche corte e una giacca certamente non sufficiente per le temperature esterne! La paura ti fa perdere anche il controllo di quello che pensi.

Le hostess tolgono la mascherina e appaiono più rilassate. Una di loro dice che possiamo toglierla anche noi, e così faccio, incredula torno a respirare, ma tremo ancora come una foglia e non riesco a fermarmi. Riguardo fuori dal finestrino e vedo che le montagne hanno lasciato il posto a colline, terreni, fiumi, case. Siamo sempre più vicini al suolo, ma poi rimaniamo alla stessa altezza. Passa vicino a me un'assistente per la distribuzione di acqua: la chiedo e la trangugio immediatamente. Riprende la salivazione. Mi rendo conto che qualcosa sta cambiando, che le cose stanno avendo una svolta e che forse davvero la situazione sta tornando sotto controllo. Il mio vicino è più tranquillo, osa anche dirmi si sente così perché i motori «non sono in fiamme» (mi devo consolare a questa constatazione?). I bambini smettono di piangere. Chiedo dove stiamo andando: Francoforte. Non so se piangere. Vorrei farlo ma non ci riesco. Cerco solo di pensare alla nuova destinazione, Francoforte. Sono già atterrata diverse volte in quell'aeroporto. Cerco di ricordarlo, per non pensare ad altro, ma è difficile e mi concentro allora sul fatto che da qualche minuto l'aereo è stabile, che le hostess hanno un volto meno teso. Piano piano arriviamo vicino all'aeroporto. Qualche balzo ancora di quest'aereo che ora ringrazio per essere stato in volo e atterriamo. Scatta un applause liberatorio ma io rimango incollata al sedile anche con le mani! Ci alziamo e guardo indietro. Tutte quelle mascherine tese sopra ai sedili sono la prova di quanto è accaduto, della paura che hanno suscitato, ma anche e soprattutto della vita che hanno mantenuto. Dalla scala di accesso entrano subito i primi medici per un primo controllo a chi ha avuto problemi: i bambini anzitutto e qualche persona. Io non so cosa dire. Tremo e ho un dolore in mezzo allo sterno ma non dico nulla. Che vuoi che sia... è solo stress! Ai piedi della scaletta vedo una scena vista finora (per fortuna) solo nei film: autobotti dei viglili del fuoco, ambulanze e numerosi medici e infermieri. Veniamo fatti accomodare in una parte dell'aeroporto e lì iniziano le visite più accurate da parte del personale medico. Alcune persone, compresa me, si lasciano andare a un pianto liberatorio e la psicologa presente consola alcune di loro. Il tempo passa, mando messaggi a Peter che sta aspettando a Nottingham. Cerco di essere tranquilla anche nelle parole che uso per non preoccuparlo. Dopo tre ore e una visita a tutti i passeggeri ci dicono che il nuovo volo è pronto per portarci a destinazione.

Mi avvicino al gate numero 9 e scoppio a piangere. Ho paura di avere paura! Un'assistente dell'aereoporto si avvicina e mi dice: «Lo so cosa prova… ma le cose andranno bene ora!». Sì lo so anch'io e non mi voglio arrendere. Le cose andranno bene lo so. Il peggio è passato e Peter mi sta aspettando, immagino anche il suo stato d'animo. Ritorno sull'aereo, nuovo e con nuovo personale. Riprende tutto come da manuale, solo che alla dimostrazione di come usare le mascherine scatta immediatamente una risata da parte di tutti. Anche lo steward ride, sa che le sappiamo usare! Decolliamo e dopo pochi minuti siamo ancora sopra le nuvole, dove un caldo sole che si affaccia ai finestrini riscalda tutti noi. Continuo a guardare fuori e mi chiedo come riesca ora ad essere quasi tranquilla, come riesca a sopportare i movimenti dell'aereo che ha piccoli sobbalzi per il vento che incontra in quota, ma è così e va bene! Atterriamo dopo un'ora a Nottingham. Non vedo l'ora di scendere, di arrivare da Peter e quando lo vedo allora sì, scatta un pianto davvero liberatorio! Mi stringe. Non dice nulla ma il suo abbraccio riesce a consolarmi così come le sue lacrime di gioia!

Franca Perletti

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