Omicidio di Gorlago: sentenza d’appello
Confermati i 30 anni per Chiara Alessandri

La donna uccise brutalmente la moglie del suo ex amante, Stefania Crotti, il 18 gennaio 2019.

La Corte d’assise d’appello di Brescia ieri ha confermato la condanna a 30 anni emessa a giugno dal gup di Brescia Alberto Pavan nei confronti di Chiara Alessandri, la 44enne di Gorlago accusata di aver ucciso Stefania Crotti, la moglie dell’uomo con cui aveva avuto una relazione. Quattro ore di camera di consiglio, i giudici si sono ritirati a mezzogiorno e sono usciti alle 16 con un verdetto che conferma la premeditazione e il dolo alternativo. Insomma, per la Corte d’assise d’appello, il 17 gennaio 2019 avrebbe attirato in trappola la rivale nel box della sua abitazione a Gorlago e qui l’avrebbe aggredita con 21 martellate. Poi l’avrebbe caricata in auto e avrebbe guidato fino tra i vigneti di Erbusco (Brescia), in Franciacorta, dove l’avrebbe scaricata e cosparsa di benzina, dandole poi fuoco. Secondo l’autopsia Stefania Crotti, 42 anni, anche lei di Gorlago, era ancora viva, benché incosciente. È per questo motivo che il caso è sempre rimasto di competenza della magistratura di Brescia.

Il pg Francesco Rombaldoni ha chiesto nella giornata di venerdì 5 marzo la conferma della condanna di primo grado, mentre il difensore, l’avvocato Gianfranco Ceci, ha ribadito la tesi espressa durante l’arringa tenuta davanti al gup 9 mesi fa: e cioè, il dolo eventuale, in virtù del quale chiedeva il minimo della pena (che viene calcolata fra i 18 e i 24 anni). Secondo il legale, l’aggressione nel box di Gorlago, dove per la difesa Stefania sarebbe stata attirata (con la complicità di un ignaro amico dell’imputata) per un chiarimento, non sarebbe altro che la reazione a un gesto della vittima. Stefania, stando alla versione difensiva, avrebbe impugnato un martello, Chiara sarebbe riuscita a disarmarla e a colpirla con lo stesso attrezzo fino a tramortirla. Poi, ritenendola morta, l’ha portata a Erbusco, dando fuoco a quello che pensava un cadavere. Per questo motivo, l’avvocato Ceci legge la prima fase dell’evento (l’aggressione nel box) come un reato di lesioni gravissime (al massimo un tentato omicidio), mentre la seconda fase (il fuoco appiccato ala vittima) come un omicidio colposo.

«Nessuno discute che si tratti di un fatto grave, tanto che noi abbiamo rinunciato a impugnare la parte relativa al risarcimento del danno (100 mila euro al marito, altrettanti alla figlia Martina, 50 mila euro a testa ai genitori e alla sorella Lorella, costituitisi parte civile con gli avvocati Irene Sirtoli e Luigi Villa, ndr). La mia assistita dovrà trovare il modo di farlo - osserva l’avvocato Ceci -. Ma il regime sanzionatorio pare eccessivo perché restiamo convinti che si tratti di una situazione sfuggita di mano: non c’era alcuna volontà di uccidere. Sarà comunque la Cassazione a mettere la parola fine a questa vicenda».

La Corte d’assise d’appello, rispetto alla sentenza di primo grado, ha cancellato i tre anni di libertà vigilata al termine della pena comminati dal gup. «Vuol dire che non è stata giudicata una persona malavitosa - commenta il suo legale - e che può dare garanzie per il recupero».

Ieri Chiara Alessandri, collegata dal carcere, ha rilasciato dichiarazioni spontanee, raccontando il suo percorso di riabilitazione. Ha detto di essere prossima al diploma di geometra, che andrà ad aggiungersi a quello di ragioneria; ha illustrato la sua attività nell’infermeria del carcere dove vengono prodotte mascherine anti-contagio anche per l’esterno; e ha parlato dei collegamenti via Skype con i due figli, ora affidati al padre.

Il marito di Stefania, Stefano Del Bello, nei giorni scorsi a La Stampa aveva confessato di sentirsi in colpa («Se non l’avessi tradita sarebbe qua ancora. Il pensiero che nostra figlia debba crescere senza un genitore è inimmaginabile, con una situazione peggiorata dal fatto che Stefania non è mancata per una malattia ma perché uccisa»). Contattato dal nostro giornale ieri, ha preferito non rilasciare dichiarazioni.

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