Un gigante che si faceva bambino
al letto dei suoi piccoli pazienti

Alberto Ceresoli

«Un gigante che ogni domenica si faceva bambino chinando il capo in segno di umiltà per entrare nella casa del Signore». È efficace la metafora a cui il parroco di Borgo Canale ricorre per far emergere il tratto più nascosto di Parenzan.

«Un gigante che ogni domenica si faceva bambino chinando il capo in segno di umiltà per entrare nella casa del Signore». È efficace la metafora a cui il parroco di Borgo Canale, don Romano Alessio, ricorre per far emergere il tratto più nascosto e intimo dell’animo di Lucio Parenzan, quello legato alla religiosità.

Il «prof» ci parlava ogni tanto col Padre Eterno - «Beh, che ci sia qualcuno sopra la nostra testa, lo sappiamo... lo sappiamo che c’è...» -, ma mai in sala operatoria, dove si assumeva tutto il carico della responsabilità, nel bene e nel male, comunque andasse.

«Lì», però, ci tornava. «Non c’è un intervento dove ho pensato che ci avesse messo una pezza il Padre Eterno - raccontò una volta nel saloni di Villa Elios, in Humanitas Gavazzeni -, ma un decorso post operatorio sì, e più di uno. Gente che sembrava morta e che invece è sopravvissuta, ce l’ha fatta... Noi li chiamiamo i “quasi persi”... Malati che una volta usciti dalla sala operatoria hanno parametri da far accapponare la pelle, che vanno sempre peggio, fino a quando qualcosa cambia e tutto si volta, tutto comincia ad andare improvvisamente meglio, e il malato la porta fuori... Non sappiamo, non sapremo mai cos’è successo... Succede e basta... Puoi pensare, puoi dire, ma capire no, capire, mai... Di certo, non sei stato tu... Ci vorrebbe suor Giulia adesso (uno dei suoi “angeli” in corsia al “Maggiore” - n.d.r.)... abbiamo visto cose straordinarie insieme...».

Forse è anche per questo che Parenzan riusciva a farsi bambino ogni giorno, al letto dei suoi piccoli pazienti. Chi c’è passato e aveva l’età per ricordarselo, oggi non farà fatica a ricordare. Per tutti gli altri, però, «parlano» gli archivi fotografici, dove è tutt’altro che infrequente trovare immagini che spiegano con semplice evidenza lo speciale rapporto che il «prof» sapeva creare con i bimbi che curava. «Una volta ho operato due miei amici di Milano e mi sono fatto pagare facendomi regalare i giochi dei bambini del reparto».

Perchè ai bambini ci teneva, e ci teneva davvero. E per curarli, lui e Giorgio Invernizzi (il «suo» cardiologo, l’amico di una vita) non esitavano ad andare a cercarli in Sicilia come in Calabria, per ridare loro una speranza. Oppure in Kenya. E ieri, nella chiesa del Carmine, lo ha testimoniato - trattenendo a stento la commozione - anche Maddalena Giudici, sorella di Padre Antonio, un missionario comboniano che a Parenzan affidò, negli anni, almeno duecento bambini, tutti gravemente cardiopatici.

Tutti presi in cura dal professore e dalla sua equipe. Giovani capaci - i suoi «ragazzi» -, ben preparati, temerari almeno quanto il loro «prof». Molti dei suoi boys ieri erano lì, a poca distanza da quel feretro chiaro coperto da un cuscino di rose rosse. Certo più attempati, ma forse ancor più consapevoli di aver avuto come maestro un maestro vero, uno che ha insegnato loro a diventare grandi, e non solo professionalmente. E proprio loro, in occasione dei suoi 65 anni, gli hanno fatto uno dei regali più apprezzati: una sorta di quadro dove una mano «spezzava» in due un muro. «Un uomo che riesce a rompere un muro in due... che forza... io trovo che quello sia uno dei più bei regali che i miei ragazzi mi abbiano fatto».

Indulgente con loro, il professore. «Sarei disposto a perdonare moltissime colpe, sono di manica larga. Beh, moltissime... non esageriamo. Dipende, dipende da come sono state fatte... Se sono fatte a fin di bene, ingenuamente o senza pensarci, lascio andare... Ma se invece sono fatte in malafede, allora non ci siamo proprio. Buono sì, fesso no: è li che vien fuori il mio pessimo carattere...». Non si preoccupi, prof, lassù non ci faranno caso.

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