Crisi non risolta
Caccia ai voti

Dopo Giuseppe Conte, il Presidente della Repubblica ha ricevuto l’opposizione di centrodestra. Che, a quanto è dato di capire, ha irrigidito le sue posizioni: sparita l’ipotesi di governo di unità nazionale, dissolta anche la strada del governo di centrodestra a fine legislatura, resta in piedi – per Salvini, Meloni e Berlusconi – soltanto la soluzione delle urne. Meglio perdere due mesi in campagna elettorale, ha detto Salvini, e avere un governo stabile che continuare a essere ostaggio di un gabinetto senza maggioranza e con un Parlamento ingovernabile. È insomma prevalsa la linea di Giorgia Meloni: senza tentennamenti, vogliamo le elezioni (che siamo certi di vincere) e le vogliamo subito, prima del semestre bianco, per essere certi di poter noi eleggere il nuovo Capo dello Stato, che è poi buona parte della competizione politica che si sta giocando. Per il momento Salvini si accoda alla Meloni dimenticando la cosiddetta «dottrina Giorgetti» secondo cui l’esito fatale del governo Conte-due non può che essere, per intrinseca sua debolezza e per immensità dei problemi da risolvere, un gabinetto di «solidarietà nazionale», posto che lo si possa chiamare così.

Anche Berlusconi per il momento si allinea, anche se proprio Forza Italia, con la sua opposizione ragionevole, con la sua vocazione europeista e anti-sovranista, con i suoi legami con la grande famiglia europea di centro del Partito Popolare, è la prima «sospettata» di essere pronta ad appoggiare un governo «con dentro tutti» ma anche - ecco la variante azzurra - una maggioranza «Ursula», composta cioè dai partiti che a suo tempo votarono a favore di Ursula Von der Leyen alla Commissione Europea: tutti tranne Lega e Forza Italia. Ma ora i berlusconiani non muovono un passo verso soluzioni diverse dallo scioglimento anticipato delle Camere. Per il momento dunque la situazione è in pieno stallo. Conte sta provando a costruire un ulteriore sostegno con gruppi parlamentari centristi.

Alla Camera il lavoro è molto avanti con il Centro democratico di Bruno Tabacci che già conta tredici deputati e presto ne accoglierà altri. Al Senato invece prevale la diffidenza tra i peones, naufraghi, dispersi e volenterosi che teoricamente potrebbero aderire a una nuova formazione centrista di cui Conte si facesse se non guida, almeno garante. E non giova l’accidente giudiziario capitato a Lorenzo Cesa, il segretario dell’Udc su cui a palazzo Chigi contavano di poter lavorare per strapparne il consenso: con lui sarebbero usciti dal centrodestra almeno una decina di senatori. Ma Cesa ora si è dimesso per via dell’inchiesta di Catanzaro sui rapporti tra politici e ’ndrangheta. Tra l’altro occorre fare in fretta: mercoledì 27 gennaio infatti il Guardasigilli Bonafede, capodelegazione grillino al Governo, presenterà in Parlamento la relazione sullo stato dell’amministrazione giudiziaria.

Ci sarà un voto e servirà la maggioranza assoluta; Renzi ha già preannunciato voto contrario: senza di lui e con i soli «responsabili» la maggioranza assoluta non c’è. Se viene bocciata la relazione del ministro il segnale per il Movimento Cinque Stelle è devastante. E se cade Bonafede che fine fa il governo? Da qui a mercoledì Conte deve portare a casa i voti: si capisce che sono e saranno ore febbrili, segnate da molte promesse, forse qualche ricatto, liti e sospetti. Franceschini sostiene che il margine di sicurezza del governo è addirittura 170 voti, quattordici in più di quelli raccolti martedì scorso. Neanche il mago Mastella riuscirebbe in una impresa del genere. Non resta che attendere. Mattarella si sa che è molto preoccupato; a Bruxelles invece sono molto irritati. Nessuno ha una vera soluzione in tasca: ecco dunque cosa è la «crisi al buio», e perdipiù nel momento peggiore possibile.

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