In 13 milioni ai seggi
Un esame politico

l voto di oggi nelle grandi città è amministrativo, ma l’esame è politico: siamo al primo passaggio, intermedio, dello scontro fra Pd e fronte populista in vista dell’appuntamento decisivo del referendum di ottobre sulle riforme costituzionali. Si può discutere se oltre 13 milioni di persone, un quarto del corpo elettorale, siano rappresentative anche di precise scelte di schieramento quando si deve scegliere il sindaco del proprio Comune.

Ma il voto in vetrine come Roma, Milano, Torino, Bologna e Napoli si conta e soprattutto si pesa: al primo colpo di oggi e al secondo del ballottaggio. Renzi ha le sue ragioni, se non altro di prudenza, nel ribadire che non si tratta di un voto sul governo e che il suo destino si decide sul referendum: una scelta più volte riaffermata per mettere in sicurezza Palazzo Chigi e infatti in questi mesi lo snodo più lontano nel tempo ha preso il posto nell’agenda politica di quello prossimo.

È cambiato però il passo del premier che, dopo aver tenuto ai margini queste amministrative, ci ha messo la faccia con una maratona elettorale negli ultimi giorni. Questo protagonismo potrebbe confermare che Renzi teme gli esiti di una consultazione rischiosa, ma, da animale politico qual è, potrebbe aver colto un vento più favorevole o meno sfavorevole: un’evidente fragilità della candidata grillina a Roma in marcia verso l’ignoto, una stanchezza ripetitiva, da disco rotto, di Salvini nel cavalcare la questione migranti, la possibilità di infiltrarsi nelle pieghe di un centrodestra diviso.

Il leader del Pd intende così spostare in là l’esame a cui dovrà sottostare, ma lo scrutinio è già qui. Non può sottrarsi: la posta in gioco è troppo alta per poter essere rimossa, anche perché è la prova generale delle agguerrite opposizioni e in competizione fra loro. Non ci saranno riflessi diretti sul governo, tuttavia le misure da prendere riguardano i rapporti di forza fra i tre poli e all’interno dei partiti. Il radar illumina l’asse Roma-Milano con l’aggiunta della potente variabile astensionista.

Sotto esame lo stato di salute della mutazione renziana del Pd: successo o insuccesso determinano, nel confronto con l’opposizione interna, la prospettiva di un partito unito o lacerato in vista del referendum. È evidente che se Roma (la cui dimensione è internazionale e il cui saccheggio è stato operato dalla malapolitica) dovesse cadere in mano grillina, si aprirebbe un varco inedito politico ancor prima che amministrativo. Certo, si potrebbe dire che i 5 Stelle hanno voluto la bicicletta e a quel punto devono pedalare, ma sarebbe una magra consolazione dinanzi ad una poderosa spallata.

La cifra delle elezioni si coglie bene anche a Milano, caposaldo non solo simbolico del Nord, dove il Pd non può permettersi di perdere: Renzi ha voluto Sala, ottimo manager, ma Mister Expo partito come invincibile deve vedersela con un avversario di pari professionalità, Parisi, espresso da un centrodestra vecchia maniera e formalmente unito, e quello che era un successo annunciato è diventata una partita combattuta.

I 5 Stelle giocano tutte le loro carte a Roma e in parte a Torino nel pieno di una transizione confusa: orfani di Casaleggio, con Grillo che ha compiuto un passo a lato, nella cornice di un movimento nato dal basso e fattosi verticista. Un enigma in crescendo.

Chiara, invece, l’acrobazia della filiale italiana del lepenismo: Salvini, per la prima volta, tenta la manovra spericolata di intestarsi, in concorrenza con i grillini, la guida dell’area populista e il sorpasso su Forza Italia con pretesa successione a Berlusconi. Il capo leghista si muove su due tavoli alternativi (Roma e Milano) e, mentre l’ala governativa di Maroni e Zaia attende il segretario in riva al fiume per la verifica di una svolta mal digerita, il rito ambrosiano appare difficilmente spendibile per la Lega abbagliata dalla Le Pen: se il centrodestra perde, Salvini è comunque parte della sconfitta; se vince, quel successo non è suo dato che rappresenta l’opposto della formula di destra radicale.

Quanto a Berlusconi, distratto e distante, si tratta di valutare se il suo disarmo coincide ormai in modo strutturale con il ripiegamento dell’elettorato moderato. In definitiva: troppa polpa per un semplice voto amministrativo, ma sufficiente per un test politico.

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