In Germania Angela IV
fa argine ai populisti

Sono state due le partite di ieri giocate in Europa: il voto in Italia e quello della base socialdemocratica tedesca che ha dato il via libera alla Grande coalizione, quindi al quarto governo dell’inossidabile Angela Merkel e al terzo delle larghe intese fra popolari e Spd. Quanto ai paralleli con l’Italia, si tratta solo di una coincidenza di tempi: tutti i leader (Renzi e Berlusconi, ma anche Salvini nei confronti di Di Maio) hanno escluso alleanze ibride. A parole. Si vedrà, comunque il proporzionale non incentiva maggioranze omogenee di governo. Più utile, allo stato, guardare la tabella di marcia: la pur stabile Germania ha impiegato sei mesi per arrivare al dunque, poco meno dell’Olanda, mentre in tempi recenti la Spagna ha dovuto votare due volte per avere un governo, peraltro non autosufficiente.

Le urne in Italia chiudono un anno di elezioni nei grandi Paesi europei che hanno arginato l’offensiva dei partiti antisistema (Olanda e Francia), ma non tutto è andato liscio. In Austria (e non solo) i popolari governano con l’estrema destra e in Germania, per la prima volta, la Cdu della cancelliera ha alle sua destra un partito radicale che continua a gonfiarsi e che ora, con il riproporsi della Grande coalizione, diventa il principale gruppo d’opposizione. I populisti (fenomeno che va oltre i confini tradizionali di questo termine) vincono anche quando perdono, perché sono comunque un fattore ormai strutturato e capace di condizionare.

Nel frattempo s’è acuita la frattura con l’Est in libera uscita dalla liberaldemocrazia (Ungheria e Polonia) e assistiamo a cosa vuol dire protezionismo con la guerra dei dazi su acciaio e alluminio innescata da Trump. Si profilano sfide difficili per l’Europa, dalla gestione della Brexit al nuovo assetto della Banca centrale europea del dopo Draghi, dalla riforma dell’eurozona ad una decente politica migratoria e mediterranea, fin qui fonte di controversie e diserzioni. Se tutto lascia pensare ad una rinnovata intesa Merkel-Macron, traino di un’avventura mirata alla rifondazione Ue, l’Italia – qualunque sia il governo – dovrà dire se intende essere parte del gruppo di testa. La dimensione dei problemi è tale da richiedere un rafforzamento del ruolo dell’Italia nelle alleanze occidentali.

Il che significa definire l’agenda italiana e la nostra collocazione in quale Europa: in quella storica francotedesca, pur con tutti i rilievi critici alla tecnocrazia di Bruxelles e all’ortodossia dell’austerità, o in quella autarchica di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia). Fin qui la Merkel ha attutito, nei nostri confronti, il rigore dei falchi che ha in casa. L’Italia, dopo aver fatto i compiti richiesti ed aver agganciato la ripresa, ha però il fardello del debito pubblico, questione espulsa dalla campagna elettorale. La manovra finanziaria aggiuntiva resta un interrogativo. L’Europa, in Italia e altrove, continuerà a costituire una faglia difficilmente componibile, mentre l’euroscetticismo s’impone perché paga in consensi, tant’è che lo stesso europeismo in campagna elettorale è stato di nicchia ed è volato basso.

La Lega è sovranista e Salvini ha parlato di «riposizionamento internazionale» dell’Italia, i grillini hanno fatto le capriole e non si capisce da che parte stiano, Berlusconi pro Merkel senza particolare entusiasmo si conserva un margine d’ambiguità per garantirsi uno spazio di manovra. La stessa indicazione di dirottare il presidente dell’europarlamento, Tajani, verso palazzo Chigi non è (a parte tutto il resto) in linea con l’interesse nazionale. In Europa il gioco è duro e s’è visto sui flussi migratori e sulla Libia, territorio di rivalità con una Francia che non va per il sottile: questioni la cui stabilità sono per noi prioritarie. Ma per contare bisogna essere credibili e non sprecare le poche occasioni che abbiamo avuto.

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