La Lega cancella
il Nord: un vuoto

La Lega dà l’addio al Nord? Messa così, la domanda è superata: l’abbandono della casa madre è già avvenuto per tappe attraverso la mutazione genetica in partito nazionalpopulista e con il peregrinare al Centro e al Sud, di cui la Sardegna è l’ultima trasferta di successo. Tuttavia ha senso porsi il problema ed è la stessa Lega a ripresentarlo, sia pure per rimuoverlo: un documento interno della segreteria nazionale, infatti, invita le sezioni locali a non utilizzare «simboli ormai superati» come «Lega Nord», ma continuare ad impiegare il contrassegno impiegato alle elezioni dell’anno scorso, «Lega-Salvini premier».

Dunque, davvero niente di nuovo in una storia che si ritiene pacificata e che va al cuore della frattura anni ’90? Il richiamo del vertice coincide con l’intervista di Maroni a «la Repubblica» in cui l’ex governatore, oggi battitore libero esterno al Carroccio, sostiene che la Lega sovranista non rappresenta più il Nord e che serve un partito su misura per il Settentrione da affiancare al salvinismo. Maroni, va da sé, esprime un sentimento, se non un disagio, che sta nei riflessi condizionati della vecchia guardia lumbard, nel pancione dell’elettorato storico e che ha in Zaia il suo portavoce istituzionale.

Malessere che si pone al di là dello stesso psicodramma sulla Tav, crocevia non solo settentrionale, ma italiano ed europeo a tutti gli effetti. E che si allinea allo snodo dell’autonomia differenziata, altro tema del contendere con i grillini. Il referendum leghista in Lombardia e Veneto era stato il colpo di coda dell’enclave bossiana, sostenuto dai gruppi dirigenti della società civile del Nord e dall’elettorato comune. Salvini non ha mai dato l’idea di crederci più di tanto ed è uno scetticismo, il suo, che permane, coerente – al di là del giudizio di merito – con il «prima gli italiani» al posto del «prima il Nord».

Il vero leader del governo felpastellato è partito per un’altra tangente, è monotematico (immigrazione), sta sul pezzo della politica del momento (populismo), consapevole che il consenso virtuale alla Lega è quasi tutta roba sua e che comunque se ne riparlerà dopo le Europee, quando conta di fare il pieno, di capitalizzare la svolta con i voti reali.

Il Nord, però, nella sua solitudine, resta lì a guardia del barile pronto a esplodere dopo le delusioni ricevute dalla stagione del forzaleghismo, con il suo scontento irrisolto, anzi aggravato dal ritorno della recessione e dalla cultura antindustrialista dei 5 Stelle. Si sente abbandonato. Addio, dunque, al «sindacato del territorio», all’armamentario ruspante e alle rivendicazioni territoriali che avevano una base concettuale negli studi dell’illustre Gianfranco Miglio. Andando oltre l’impatto delle disavventure giudiziarie del cerchio magico di Bossi. Se il senso di marcia archivia la Padania popolana e il ribellismo che stava dentro la parabola dell’avanguardia produttiva, questo disimpegno va visto nel ciclo politico attuale e in prospettiva. La questione del Nord è uscita da tempo dall’agenda politica. Tav e decrescita lo hanno riproposto, ma nel quadro di una congiuntura negativa, non ancora come indirizzo di fondo: fino a che punto l’autonomia differenziata (sperando che non sia una «secessione dei ricchi») scalda ancora i cuori e rappresenta un’urgenza per il Paese e come intende dialogare con il mondo esterno? E, a parte il pasticcio del reddito di cittadinanza, come si coniuga con un Sud, i cui indicatori sociali ed economici vanno di male in peggio? Su tutto, poi, c’è la rappresentanza sguarnita, che bene o male era gestita da Lega e Forza Italia. Il vuoto della dismissione lumbard non è stato colmato: lascia smarrimento, interrogativi, piazze di protesta a volte piene, ma che vanno e vengono. Maroni, nell’intervista, ha detto che i moderati, i principali referenti del Nord, sono in via di estinzione. Se con questo termine intendiamo i liberalconservatori, l’area pragmatica poco incline all’ideologia, il giudizio dell’ex governatore andrebbe completato: questo mondo politicamente sotto traccia e orfano del berlusconismo trionfante rimane tuttora consistente perché insediato nella natura mediana dell’italianità, ma non scorge all’orizzonte punti di riferimento, relazioni amichevoli.

Quel piccolo-grande capitalismo che macina le parole d’ordine di sempre della società aperta, oggi messa in discussione dal deficit sociale: capannoni, strade, poche tasse, molto mercato, poca politica-politicante, concretezza. Salvini ha fatto saltare lo schema del vecchio centrodestra berlusconiano, lasciando scoperto il fianco dei moderati e lo sbocco politico della questione settentrionale. Una terra storicamente difficile, e a tratti proibitiva, per il centrosinistra anche nei suoi momenti migliori. E, salvo smentite, il nuovo Pd di Zingaretti non pare il più sensibile a trovare una qualche affinità elettiva con la prima linea del mondo produttivo settentrionale. Un problema aperto: fra ciò che è andato in frantumi e quel che ancora non c’è.

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