La potenza gentile del gesto di Ruslan

Sinistro al volo e goal. Ma non c’è nulla da esultare, e Ruslan non lo fa. Quello sguardo è senza gioia, quasi smarrito, con dentro l’ombra di un conflitto ancora più vicino se vissuto in quello stadio al Pireo. Non alza le braccia ma la maglia nerazzurra: sotto ce n’è una bianca con una scritta a pennarello, «No war in Ukraine». Malinovskyi resta fermo davanti ai tifosi greci che non hanno capito un gesto che è tutto tranne che una sfida, semmai una richiesta d’aiuto al mondo. I compagni lo abbracciano, sembrano volergli fare scudo, in campo e fuori.

La regia cambia inquadratura in un amen, del resto business is business, e quelli della Russia in Europa sono davvero tantissimi, a cominciare dalle sponsorizzazioni nel calcio. Ma quando tornano le immagini dal campo del Karaiskakis si vede il giocatore che congiunge le mani come in preghiera, quasi a chiedere la comprensione dei tifosi che invece non riescono ad andare oltre quel goal appena incassato. Ma la partita è un’altra, molto più drammatica e importante di uno spareggio per un’Europa che continua ad avere difficoltà nel parlare a una voce sola, se non a farsi semplicemente sentire.A volte ci sono gesti incredibilmente potenti nella loro semplicità quasi gentile, come quello fatto pochi minuti dopo la rete di Ruslan da un altro ucraino, a poche decine di metri dallo stadio, appena al di là della ferrovia, nel palasport dove l’Olympiakos di basket sta per affrontare l’Olimpia di Milano. «Palazzo della pace e dell’amicizia» è il nome dell’arena: al centro del parquet, prima della palla a due, un uomo estrae un foglio scritto a mano e lo mette a favore di telecamera. Si chiama Borys Rhyzyk, è ucraino ed è l’arbitro: «No war» si legge. Senza se e senza ma.

Poi la situazione si è fatta indubbiamente ancora più complessa e drammatica e davanti alle scene dell’invasione russa anche Malinovskyi ha ceduto al sentimento patrio chiedendo (ancora) di sostenere la resistenza ucraina nel Donbass, mentre la moglie Roksana ha lanciato via social un appello alla Nato a «chiudere lo spazio aereo perché stiamo morendo». Messaggi che sembrano lo specchio del terrore di una guerra che si sta compiendo a poche ore di volo dall’Europa piuttosto che di un sentimento nazionalista. E non è scontato, perché spesso lo sport si è rivelato veicolo di pulsioni di questo genere. Era successo nel maggio 1990 negli scontri in campo e sugli spalti al Maksimir di Zagabria prima di Dinamo-Stella Rossa quando esisteva ancora la Jugoslavia. La ginocchiata dell’allora giovine Boban a un poliziotto ha sbattuto in faccia al mondo quelle tensioni serbo-croate sfociate poi in una guerra fratricida e fatto del giocatore un eroe nazionale. Per non dire delle terribili pagine della dissoluzione della nazionale «plava» magistralmente raccontate dal bergamasco Gigi Riva ne «L’Ultimo rigore di Faruk».

In situazioni del genere lo sport non è mai un campo neutro ma semmai una scelta di campo. Quella fatta da Malinovskyi per ovvie questioni d’appartenenza, ma anche dal tennista russo Andrey Rublov che, incurante delle possibili conseguenze, dopo avere conquistato la finale del torneo di Dubai ha vergato sulla telecamera un eloquente «No war, please». E anche, e soprattutto, le parole di Sinisa Mihajlovic, uomo che non ha mai fatto mistero di essere di parte nel dramma del conflitto balcanico, ma che ieri ha lasciato la conferenza stampa del Bologna quasi in lacrime con una frase da non dimenticare mai: «La guerra è una cosa più grande di noi». Ecco, riscopriamoci tutti più piccoli nel fare un passo indietro, come il gesto gentile e silenzioso ma allo stesso tempo rumoroso del nostro Ruslan al Pireo. Nostro perché questa storia ci riguarda. Tutti.

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