Medioriente in fiamme
la nostra latitanza

La piccola Italia intenta e ripiegata sul piccolo caso Paragone si ritrova quantomeno spiazzata dal raid americano che ha ucciso il generale Soleimani, l’architetto della strategia iraniana per l’egemonia nel Golfo e in Medio Oriente. La prima impressione è che ancora una volta il nostro Paese e l’Europa si rivelino attoniti e impotenti dinanzi ad un evento dalle conseguenze non facilmente prevedibili e che li ha scavalcati. E l’imprevedibilità misura il passo di Trump, che ha iniziato l’anno del voto per la Casa Bianca nel modo più pericoloso e fragoroso. Si era parlato fin qui di un presidente isolazionista, deciso a portare a casa i «ragazzi» dalla Siria e dall’Afghanistan, di un’America indebolita in Iraq e nel Golfo.

E invece il calcolo non ha funzionato: Trump torna in Medio Oriente con un blitz di rottura. Dinanzi a questo terremoto geopolitico, l’Italia si colloca ai margini di un altrove, incapace di alzare lo sguardo oltre il proprio ombelico. Ci si deve chiedere se abbiamo una politica estera leggibile nelle sue coordinate e se questa abbia la rilevanza che le spetta in un dibattito politico ricco di frastuono e povero di contenuti. Abbiamo discusso a lungo, quasi divertiti, sul «Giuseppi» detto da Trump a Conte, ma non abbiamo dibattuto come, e in che termini, ritrovare un ruolo internazionale, quali azioni dispiegare nel Mediterraneo, la lealtà o meno ai fondamentali delle nostre alleanze.

Il fallimento della politica italiana in Libia, con l’eccezione del pacchetto dell’allora ministro Minniti, suona insieme indicativa e impietosa. E lo è specie per un’Italia che ha legami storici con la «quarta sponda» e che nei decenni trascorsi ha svolto una politica intelligente e di cerniera con il mondo arabo-musulmano. In Libia siamo stati i principali sponsor del governo Serraj, sostenuto dalla comunità internazionale, poi abbiamo strizzato l’occhio ad Haftar, il generale guastatore della Cirenaica, quindi ci siamo inventati una «equidistanza» fra i due. E infine, passati da protagonisti pacificatori alla «cabina di regia», ci siamo relegati ad un ruolo gregario e infatti la Turchia, che sta per inviare le truppe, ringrazia. Non siamo stati capaci di esercitare un ruolo in Libia per fermare la guerra civile e per procura, condotta cioè da attori regionali, in quello che riteniamo il nostro «cortile di casa», forti di quel soft power civile di cui andiamo fieri.

Questo succede perché siamo orfani di una cultura adeguata, della convinzione che i rapporti internazionali non producano consenso e voti, dei tic che vogliono interpretare il mondo con gli occhi della bottega interna. Fin qui le reazioni di Roma e delle cancellerie europee sono ragionevoli, ma modeste: moderazione, stabilità, fragilità, preoccupazione. Parole che risultano convenzionali, forse inadeguate alla spirale che può innescare la mossa di Trump. Scontate anche le posizioni dei partiti, prevedibile la prudenza di Conte e di Di Maio. Non sorprende Salvini pro Trump, dato che il leader leghista deve togliersi l’immagine di essersi sbilanciato a favore di Putin (la Russia è storicamente alleata all’Iran). Giorgia Meloni, ancora una volta, si smarca dal competitore sovranista. Fra i grillini c’è tutta un’ala filo iraniana. Non è granché, mentre ci sembra che la vera questione sia stata posta dall’ex ministro degli Esteri D’Alema in un’intervista a «Repubblica».

E cioè: la vera novità è che la comunanza di valori di Europa e America non c’è più, che gli Stati Uniti hanno spezzato un patto con il vecchio continente e che l’Ue, più che debole, non è in grado di usare la propria forza economica e militare. La conferma è venuta dal segretario di Stato americano, Pompeo, che, dopo aver chiamato tutti gli alleati tranne l’Italia, ha definito insufficiente il sostegno degli europei alla Casa Bianca. Questa censura certifica la distanza ormai codificata fra i due mondi, il loro modo di essere e di porsi sullo scenario internazionale. Non è chiaro fino a che punto l’Italia sia consapevole della posta in gioco e dei propri limiti. Un Paese che ha pur sempre circa 6 mila soldati impegnati in 34 missioni su 24 Paesi, compresa l’area di crisi: Iraq, Libia, Libano. In una prospettiva fatta di conseguenze economiche (rincaro del petrolio, sanzioni, commerci), ritorno dei flussi migratori (Libia), surriscaldamento totale dei vari conflitti in corso.

Neppure si vede all’orizzonte una iniziativa forte e unitaria dell’Europa che deve mettere insieme tante cose contrastanti: l’accordo sul nucleare con l’Iran del 2015 dal quale si sono ritirati gli Stati Uniti, la difesa dei diritti umani, la protezione dei propri interessi economici, gli equilibri di un’area incandescente, la consapevolezza delle responsabilità del regime iraniano nell’escalation della violenza e dell’instabilità politica che hanno scosso la regione in questi ultimi anni. Salvare le esigenze della geopolitica, il business e pure l’anima? Spesso l’Ue è stata accusata di aver più voci dissonanti, dove ogni Paese prova a gestire da solo i vari conflitti aperti. Ma un conto è cercare di avere una voce sola, altra cosa è non avere voce.

© RIPRODUZIONE RISERVATA