
Ogni vita un racconto / Valle Seriana
Giovedì 11 Settembre 2025
Il giardiniere e la morte: un romanzo che parla di vita, non di addii
Nell’ultimo libro di Georgi Gospodinov, edito da Voland, la morte non è solo distacco ma memoria viva. Il giardiniere e la morte diventa un viaggio poetico tra ricordi, radici e il legame profondo con chi ci ha lasciato. Perché quando perdiamo i genitori, perdiamo anche un intero mondo da custodire.
«Mio padre era giardiniere. Ora è giardino. Non so da dove cominciare. Che questo sia l’inizio. Si parla di fine, ovvio, ma dove comincia la fine?». Comincia così questo romanzo sulla morte e sulla vita. «Il giardiniere e la morte» di Georgi Gospodinov (Voland edizioni) con la traduzione di Giuseppe Dell’Agata, è l’ultimo romanzo dello scrittore bulgaro oggi considerato tra i più talentuosi in patria.
Non c’è una vera e propria trama, l’autore segue il flusso di coscienza di un figlio, l’autore stesso, che assiste il padre durante una lunga e crudele malattia: lo ricorda lavorare in giardino, curare le piante da frutto, i fiori. Poi, a poco a poco l’orizzonte si allarga ai vicini di casa, ai conoscenti e all’intera Bulgaria che viene disegnata povera e dignitosa. Il romanzo ci restituisce in questo modo la chiave di lettura che Gospodinov ha usato per capire qualcosa di sè, della sua visione del mondo e indica anche al lettore una strada possibile per scoprire cosa lo fa essere quello che è.
Dalla penna dell’autore non si dipana un tempo cronologico ma un tempo diverso, che non è lineare. Il padre, ovvero l’eroe della narrazione, muore non alla fine, ma a metà libro e tuttavia subito torna vivo in tutte le storie di prima o anche in quelle che vengono dopo. Perché il tempo non va in un’unica direzione.
La vita del papà di Gospodinov non è tanto diversa dagli uomini anziani della generazione che ci sta lasciando: silenziosi, stoici, pronti ad osservare tutto e a commentare poco. I discorsi e le posture di certi momenti descritti nel libro somigliano a quelle di genitori e figli di oggi: le notti di Georgi trascorse con il padre, le ore sdraiati nello stesso letto e il vano tentativo di trasmettere la vita a un corpo morente. Il desiderio di riunirsi per Natale, le storie, la ricostruzione di un albero genealogico e i vecchi diari ritrovati.

La penna dell’autore ci porta anche a dare un nome all’emozione che ci accompagna e che è impossibile da scacciare: un dolore così dolce a cui non riusciamo a rinunciare, ovvero la malinconia. Non c’è un’estetica del morire, sembra suggerirci l’autore bulgaro, ma nonostante ciò, può esserci bellezza nella lotta, nel ricordo, nella tenace volontà di continuare a vedere il padre vivo prima e anche dopo, nella memoria e nei sogni. Racconta Gospodinov: «”Forse mi son pisciato sotto”, disse mio padre sulla soglia. Stava nel riquadro della porta d’ingresso, angosciosamente dimagrito, un po’ ingobbito, quell’ingobbimento tipico delle persone alte. […] “Mi son pisciato sotto”, ripeté, come un bambino che si senta colpevole e con quella sua tipica autoironia, “ci copriamo di ridicolo diventando vecchi”. “Va tutto bene”, dissi, e cominciammo a cambiare i vestiti in corridoio, chiudendo la porta del soggiorno».
Cos’è dunque questo sentimento che si incarna in noi? La misura della malinconia viene descritta in queste pagine come l’ansia per la primavera in arrivo, «quando apparirà tutto quello che lui ha seminato e lui non potrà vederlo. Malinconia per il ciliegio, che aveva piantato due-tre anni fa e che adesso darà i frutti per la prima volta. La morte è un ciliegio che matura senza di te».
Di sicuro è per questo che raccontiamo. Per creare un altro corridoio parallelo, nel quale il nostro mondo e tutti quelli che lo abitano possano continuare a vivere, per deviare il racconto in un’altra aiuola, come il giardiniere devia l’acqua sulla vicina aiuola dell’orto. «Da piccolo sceglievo dalla biblioteca solo i libri scritti in prima persona, perché sapevo che lì l’eroe non sarebbe morto – scrive l’autore -. Questo libro è scritto in prima persona, benché il suo eroe autentico muoia. Sopravvivono solo i narratori di storie, ma anche loro un giorno moriranno. Solo le storie sopravvivono. E il giardino che mio padre aveva piantato prima di andarsene».
«Mio padre riusciva a trasformare ogni posto in un giardino, ogni abitazione in una casa» si legge nelle prime pagine. Adesso resta la sua storia. «Niente di grave, come diceva lui».
La storia del «Tone Perso» che diventò leggenda
Ci sono racconti che resistono nei decenni. Questo è uno di quelli.
A Marinoni di Ardesio c’è una leggenda che arriva a noi dagli anni Trenta e ruota attorno ad Antonio Plodari, per tutti il «Tone Perso».
All’epoca aveva quattro anni e si smarrì mentre era al torrente con i fratellini. Scomparve per sei giorni e cinque notti. Intervistato a distanza di anni da Paolo Aresi su L’Eco diceva: «Ricordo poco. Nessuno si spiega come sia potuto sopravvivere. Ho vagato nei boschi, tra le rocce. Mi hanno raccontato che mi sono perso una mattina, lunedì 6 luglio 1933 verso le 11,30».
Aggiungeva nell’intervista il fratello Martino che all’epoca aveva 12 anni: «Eravamo andati a fare gli “spini”, eravamo giù al torrente Acqualina, a cinque minuti da casa, lì sotto, che poi salendo si arrivava al ghiacciaio della Val del Las. Al momento di rientrare il Tone non c’era. Pensavamo fosse a casa. Ma a casa non c’era. Mia madre andò subito a cercarlo con delle vicine. Mio padre si trovava a Genova per lavorare e noi rimanevamo con la mamma. Avevamo una mucca per il latte, le galline. Del Tone c’era soltanto una traccia: lo aveva visto una donna che faceva il fieno in una cascina».
Ne parlarono i giornali di tutta Italia. L’8 luglio L’Eco accreditava l’ipotesi secondo cui il bambino poteva essere stato trascinato dall’acqua del torrente e consigliava: «Occorre scandagliare il ruscello con bastoni uncinati». Invece Tone Plodari stava benone. Magari benone no, ma sopravviveva. E infatti, nella medesima intervista la sorella mormorava: «Infatti il parroco dei Bani che era un sant’uomo e aveva delle strane capacità, continuava a dire di cercarlo oltre la montagna, verso Parre». Passavano i giorni e le speranze erano ridotte a zero. Arrivarono anche i cani San Bernardo. Niente. In paese hanno parlato di miracolo, di mistero. Lui risponde sempre che non ricorda, che ha camminato e basta. Che i suoi primi ricordi diretti riguardano l’ospedale. Il Tone venne ritrovato sul Monte Altino di Parre, come aveva detto il prete dei Bani, la sera dell’11 luglio. Era già buio. Un mandriano si era recato ad ispezionare la zona perché il garzone gli aveva segnalato una strana presenza.
«Mi hanno raccontato - dice il Tone Perso - che mi lanciai verso quell‘uomo e l’afferrai alle gambe e che quello si spaventò perché pensava fossi uno spirito. Poi vide che ero un bambino». Scrissero i giornali: «Trasportatolo subito nella baita, i pastori lo ristorarono e alle loro domande invariabilmente rispondeva. “Sono dalla mia mamma; sto con la mia mamma; sono l’Antonio che vado per legna con il mio Martino (il fratello maggiore)”». Il giorno dopo venne portato ad Ardesio e il paese fu pronto a esprimere la sua gioia pur temendo che il bambino potesse ancora non farcela. Invece se la cavò e per tutta la valle suonarono le campane a festa. Ricordava il Tone: «Tutte le famiglie benestanti di Ardesio, compresi i villeggianti, mi volevano aiutare. Stetti un mese a casa dei Cacciamali». Poi Tone tornò dalla sua mamma.
Divenuto grande lavorò come boscaiolo e poi nei cantieri edilizi di Milano e infine come operaio in uno stabilimento di Villa d’Ogna. Si sposò nel 1959 con la signora Celestina che divenne subito la «moglie del Tone Perso» e i figli sono «i figli del Tone Perso». E pure i nipoti, i quali sono orgogliosi di avere un nonno protagonista di una fiaba. Il «Tone perso» è salito in cielo (nel necrologio è specificato il soprannome) il 28 maggio 2016 e sua moglie Celestina l’ha raggiunto il 10 giugno dello stesso anno. Non ha voluto che si perdesse di nuovo!
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