Una vita buona non è perfetta, ma accetta anche i fallimenti

La “qualità della vita” che cerchiamo insieme di costruire a quale idea di bene comune è collegata? La “vita buona” è l’obiettivo del popolo bergamasco? Cosa significa per noi una “vita buona”?

NON LIMITARTI A LEGGERE
PROGETTA CON NOI LA PROVINCIA CHE VORRESTI ABITARE

Oggi ci siamo interrogati sui valori alla radice dei nostri stili di vita e della nostra convivenza. Perché il futuro ci chiede un modello di sviluppo più sobrio e responsabile.

Chiediamo anche a te: Cosa è la vita buona per te? La vita buona deve essere perfetta?

Domande radicali, ma necessarie per riconsiderare i valori di fondo della nostra comunità.
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“BERGAMO HA RESISTITO”:
RIPARTIAMO DALL’ESPERIENZA

L’esperienza del Covid è stata drammatica e spesso tragica ma non è riuscita a stravolgere il tessuto sociale della Bergamasca. Come da più parti si è riconosciuto, «Bergamo ha resistito», e su questo converrebbe riflettere, resistendo alla tentazione di lasciarsi alle spalle giorni dolorosissimi per passare finalmente ad altro.

Converrebbe, dunque, non aver fretta di chiudere questa partita che attende ancora di essere fino in fondo giocata, cioè compresa; o in altre parole: converrebbe riflettere su quanto è accaduto proprio per comprendere ciò che è accaduto e chiudere così, con serietà e per quanto sia possibile, questa partita.
Mi soffermerò brevemente solo su due nuclei concettuali: l’idea di «esperienza» e l’idea di «vita buona».

Personalmente non credo affatto che si voglia sempre comprendere un’esperienza; si parla spesso di «fare un’esperienza», più raramente di «comprendere un’esperienza».

A tale riguardo il filosofo Ernst Cassirer osserva: «Il mondo umano è retto dalle stesse leggi biologiche in atto in tutti gli altri organismi. Eppure, nel mondo umano troviamo anche qualcosa di caratteristico che lo distingue da quello di ogni altra forma di vita [...] [L’uomo] Non vive più in un universo soltanto fisico ma in un universo simbolico. Il linguaggio, il mito, l’arte e la religione fanno parte di questo universo, sono i fili che costituiscono il tessuto simbolico, l’aggrovigliata trama della umana esperienza [...] Anche nel campo pratico l’uomo non vive in un mondo di puri fatti secondo i suoi bisogni e i suoi desideri più immediati. Vive, piuttosto, fra le emozioni suscitate dall’immaginazione, fra paure e speranze, fra illusioni e disillusioni, fra fantasie e sogni».

I TRE APPELLI CHE L’ESPERIENZA UMANA CI PONE

Abbiamo sufficiente tempo e volontà per entrare in questo groviglio, per misurarci con la strana logica che governa ogni esperienza umana? Estraggo solo tre fili da questo «gnommero» (Gadda).

Spesso, parlando della nostra esperienza ci inganniamo, «raccontiamo una storia» che ci aiuta a sorvolare su alcuni aspetti pochi «digeribili», cioè misurabili/controllabili, del suo sorprendente metabolismo; ad esempio, tendiamo a sottovalutare, se non addirittura a misconoscere, l’immaginazione e i sogni, le speranze e le fantasie, le credenze e le fedi presenti in ogni vissuto umano; infatti, come può un modello/progetto che pretende di essere «scientifico» prendere anche solo minimamente in considerazioni simili realtà? Eppure, non sono forse proprio queste fantasie e questi sogni, queste emozioni e queste speranze, queste credenze e queste fedi, a fecondare la strana «forza» [detesto la parola «resilienza»] di cui l’essere umano si è sempre dimostrato capace?
Nel nostro caso, come è stato possibile, mentre eravamo sotto il flagello dell’epidemia, non lasciarsi travolgere dalle circostanze e abbandonarsi allo sconforto, se non addirittura alla disperazione, se non fossero entrati in scena simili attori che tuttavia, mi ripeto, non sempre sono stati riconosciuti, sostenuti, apprezzati?

In secondo luogo, la «logica» che governa l’aggrovigliata trama dell’umana esperienza sfugge alle leggi che governano il movimento degli astri e la biologia di tutti gli esseri viventi: il vissuto umano non è interpretabile con il lessico che ci permette di leggere la vita. Ancora scrive Cassirer: «Eppure, nel mondo umano troviamo anche qualcosa di caratteristico che lo distingue da quello di ogni altra forma di vita».
Si pensi, ad esempio, alla creatività; non è forse evidente che essa, in un certo senso, ha sempre a che fare, non con il rispetto delle regole, ma con la loro trasgressione? Dimostrarsi creativi non significa forse dare vita al nuovo, aprire strade laddove vi era solo deserto o giungla, immaginare, per ritornare ad un termine già incontrato, l’inimmaginabile? L’uomo, senza alcun dubbio, non può vivere nel disordine ma c’è un ordine che impedisce all’uomo di vivere da uomo: l’entrata in scena dell’uomo, infatti, si accompagna sempre con il prodursi di un certo disordine, e questa è una fortuna.

Un terzo appello che proviene dall’esperienza, a volerlo intendere, riguarda il tempo. Quest’ultimo non è una cosa, non è un oggetto che possa essere manipolato e controllato. Lo sappiamo: non si può prevedere come la storia tra due esseri umani, tra due amanti o tra due amici, andrà avanti e si svilupperà, oppure ad un certo momento si arresterà e finirà.

Si colloca a questo livello la fondamentale distinzione tra futuro e avvenire: il primo è sempre legato al presente a partire dal quale può essere, anche se solo in parte, immaginato, pre-visto e di conseguenza progettato; all’opposto, l’avvenire è precisamente ciò che non può essere previsto/progettato; esso è il campo dell’evento, dell’avvenimento, di ciò che viene e accade, e ciò che viene e accade lo fa sempre senza avvisare, senza pre-avvisare. Accade, ad esempio, che ci si innamori, ma è una follia pretendere di progettare di innamorarsi; nessuno può prevedere con serietà quando e se s’innamorerà.

La nostra esperienza lo attesta in continuazione: l’avvenire non è il futuro, esso è altro dal futuro, e l’altro è precisamente ciò che non si può progettare, non si può inventare, non si può immaginare.Anche in questo caso, dunque, non si tratta di negare il valore e anche l’urgenza del progettare: l’uomo è progetto, l’uomo cerca con insistenza di prevedere ed ottimizzare le giornate che lo attendono; al tempo stesso sarebbe un grave errore idolatrare il proprio progetto, irrigidirsi nella costruzione di modelli che, guardando da un lato, rischiano di non accorgersi di ciò che viene, che può venire, da tutt’altra direzione. In estrema sintesi: il progettare, con i modelli ch’esso inevitabilmente genera, se da una parte apre al futuro dall’altra parte, soprattutto se crede troppo in sé stesso e si eccita con le proiezioni e gli algoritmi, rischia di chiudere all’avvenire.

UNA VITA “BUONA” NON VUOL DIRE “PERFETTA”

Missione Bergamo si propone di favorire una discussione collettiva che orienti il nostro agire futuro sull’idea di «vita buona».
Che cosa intendiamo per «vita buona»? A tale riguardo non è forse necessaria una riflessione approfondita, paziente, libera, sincera e soprattutto spregiudicata?

In effetti, nell’affrontare una simile questione ci s’incammina in un territorio disseminato di trappole, di luoghi comuni, di ovvietà, di pensieri dolciastri, di convinzioni scontate ed anemiche. Buono che cosa è? Che gli autobus siano puntuali, che i rifiuti vengano portati via? Certo, che le cose devono funzionare. Come in Svizzera? Che la sanità funzioni e non si debba aspettare 6 o 9 mesi per un esame, ma tutto ciò basta? Anche la solita insistenza che in Lombardia funziona tutto. Ma è questa la vita buona? Un mio amico tedesco mi ha detto: «A Napoli non funziona nulla tranne la vita».

«Buona» non vuol dire «perfetta» e neppure «eccellente» e neppure «di successo» e neppure «magnificamente ordinata e ben organizzata»; la vita, proprio perché tenta o spera di essere «buona», non deve forse rinunciare ad essere «ideale», accettando così di convivere, cioè di abitare, con i fallimenti, con le delusioni, con i passi indietro, con gli errori, eccetera?

I limiti, le sofferenze e i fallimenti sono condizioni dell’abitare umano e non devono trasformarsi in scandali insopportabili ed ultimamente in obiezioni nei confronti del bene; forse, ma questa è solo un’ipotesi, la vita si dimostra «buona» proprio quando riesce ad accogliere queste condizioni senza viverle come obiezioni. L’interrogativo, dunque, rimane: che cosa s’intende per «vita buona»?
Per rispondere serve una riflessione seria e credo che sia questo il compito a cui Missione Bergamo chiama tutti.

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