Mi chiamo spread

di Giorgio Gandola
Arriva l’estate e, poiché oggi le mode arrivano in anticipo sul calendario per accalappiare meglio i consumatori, la campagna elettorale lancia il ballo dello spread. Più schizofrenico del ballo del mattone, più stucchevole del ballo del qua qua.

Arriva l’estate e, poiché oggi le mode arrivano in anticipo sul calendario per accalappiare meglio i consumatori, la campagna elettorale lancia il ballo dello spread. Più schizofrenico del ballo del mattone, più stucchevole del ballo del qua qua, il differenziale maledetto inventato da quelli che il presidente americano Woodrow Wilson definiva con un pizzico di disprezzo «gli gnomi di Zurigo» (i fanatici delle politiche monetarie) è tornato in altalena e ad ogni rimbalzo aumenta il picco, fin quasi a rivedere la prima soglia psicologica dei 200 punti.

Erano mesi che almeno lui se ne stava tranquillo, ma evidentemente l’imprevisto calo del Pil nel primo trimestre 2014 e la prevedibilissima mediocrità che sta accompagnando la campagna elettorale per le Europee l’hanno indotto ad agitarsi. E a far sapere agli italiani che così non va per niente bene. Grillo che dice di essere oltre Hitler (poi corregge precisando che oltre Hitler c’è anche Chaplin nel Grande dittatore, ma ormai è fatta); Berlusconi che prefigura scenari da elezioni anticipate; Renzi che da due settimane ha smesso di governare per partecipare da one man show alla campagna elettorale hanno indotto gli investitori internazionali a mettere a fuoco l’Italia, a vederci la consueta inaffidabilità affiorante e a rivolgersi altrove. Persino in Grecia, «più seria».

Come sempre accade quando abbiamo bisogno di consenso, stiamo dando il peggio e lo spread se n’è accorto. I tempi dei 552 punti e del baratro del novembre 2011 sono ancora lontani, ma è meglio aprire l’ombrello anche se non piove.

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