«Schiavo di Hitler nei campi di lavoro». I figli: ora risarciteci con 170mila euro

IL CASO. Alpino catturato dai nazisti dopo l’8 settembre 1943 e portato nei lager, dove fu costretto ai lavori forzati e a patire freddo e fame. Sopravvisse a 635 giorni di prigionia. È morto nel 2005.

Era uno degli «schiavi di Hitler», sottoposto a lavori forzati in un lager nazista, senza percepire un salario, costretto a sopravvivere in una baracca priva di riscaldamento, con abiti estivi anche nell’inverno polare della Prussia e della Cecoslovacchia e un vitto da fame.

F. B. era nato a Bergamo nel 1916 ed è morto nel 2005 a 89 anni. Ora i suoi due figli, assistiti dagli avvocati Marco Seppi di Venezia e Matteo Miatto di Treviso (che rappresentano gli eredi di decine di altri «internati militari»), hanno fatto causa alla Germania e al ministero dell’Economia e delle Finanze del governo italiano per ottenere il risarcimento dei danni subiti dal padre attraverso il Fondo appositamente istituito nel 2022 dal governo Draghi (20 milioni di euro a disposizione per il 2023, circa 14 milioni per ciascun anno dal 2024 al 2026; il termine ultimo per proporre la causa risarcitoria, che consente di accedere al Fondo, è stato spostato al 28 giugno).

La vicenda

F. B. nel 1943 è un soldato impegnato nella Campagna di Russia. Il 15 aprile rientra in Italia, ma prima che gli venga rilasciato il congedo viene richiamato alle armi presso il 2° Reggimento artiglieria alpina – Gruppo Bergamo. Quando l’8 settembre Badoglio annuncia l’armistizio con gli angloamericani, i militari italiani si trovano nella condizione di essere considerati «traditori badogliani» dalle truppe naziste. In molti si danno alla clandestinità e fuggono in montagna aderendo alla lotta partigiana. L’alpino F. B. non fa in tempo a fare calcoli, perché tre giorni più tardi viene catturato in Italia dai tedeschi durante uno dei rastrellamenti volti a neutralizzare il Regio Esercito, ormai allo sbando. Lo stesso giorno i soldati della Wehrmacht lo caricano, insieme a un’altra sessantina di commilitoni, su uno dei carri bestiame (con porte sbarrate e filo spinato nelle feritoie) di un convoglio ferroviario diretto in Germania. Il treno ci mette 5 giorni per arrivare a destinazione. L’alpino bergamasco finisce nello stammlager (il campo di detenzione riservato ai prigionieri di guerra) di Stablack, nella Prussia orientale. Qui rimane fino al gennaio 1944, quando, dopo una marcia di oltre 600 chilometri, raggiunge lo stammlager di Teschen, in Cecoslovacchia. Viene costretto a lavorare nelle aziende belliche della zona con turni massacranti: 12 ore al giorno, col rischio tra l’altro di finire bersaglio dei bombardamenti anglo-americani; partenza all’alba e rientro a sera inoltrata, dopo marce di decine di chilometri per raggiungere il posto di lavoro e sempre sotto il controllo dei soldati tedeschi, che spesso obbligano i prigionieri anche ad adunate notturne con temperature rigidissime.

Viene costretto a lavorare nelle aziende belliche della zona con turni massacranti: 12 ore al giorno, col rischio tra l’altro di finire bersaglio dei bombardamenti anglo-americani; partenza all’alba e rientro a sera inoltrata, dopo marce di decine di chilometri per raggiungere il posto di lavoro e sempre sotto il controllo dei soldati tedeschi, che spesso obbligano i prigionieri anche ad adunate notturne con temperature rigidissime

F. B. alloggia in una baracca priva di riscaldamento, con un’ottantina di altre persone stipate su giacigli di paglia infestati da pidocchi, più simili a loculi che a letti a castello veri e propri, ed è costretto a trascorrere due inverni con la divisa estiva che indossava al momento della cattura. Le razioni di cibo sono risicatissime e i pacchi spediti dai familiari, massimo due al mese per 5 kg ciascuno, quando non vanno perduti durante la spedizione, sono soggetti a consegne irregolari e sporadiche. Come se non bastasse, durante la prigionia F. B. contrae la tubercolosi, con cui deve convivere – insieme a un disturbo da stress post traumatico - anche una volta tornato a casa.

La liberazione

L’alpino di Bergamo viene liberato l’8 giugno del 1945, dopo 635 giorni passati nei due stammlager da detenuto senza altra motivazione se non la sua condizione di militare italiano. Secondo i legali, già questo costituirebbe un crimine di guerra e contro l’umanità (in quanto in quel momento l’Italia non era in guerra contro la Germania) tale da legittimare la richiesta di risarcimento danni da parte degli eredi. Calcolato in 171.780 euro per le sofferenze patite dal padre durante la prigionia e per il lavoro non retribuito che è stato costretto a prestare in spregio alle convenzioni internazionali vigenti all’epoca. La parola tocca ora al tribunale di Roma, davanti al quale a settembre è fissata l’udienza.

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