Spiccare il volo anche col vento contrario
La storia di forza e coraggio per Micaela

Mario e Giuliana hanno accompagnato verso l’autonomia la figlia nata con la rara sindrome di Prader Willi.

Ci vuole il vento contrario per sollevare un aquilone e fargli spiccare il volo. Bisogna tenere forte il filo e correre, affrontando i capricci dell’aria, le cadute e i nuovi inizi, senza arrendersi mai. Il percorso di Mario Gibellini e sua moglie Giuliana Villa è stato così, controcorrente: hanno raccolto con coraggio la sfida di crescere nel modo migliore Michela, la figlia maggiore, nata con la rara sindrome di Prader Willi. Sono riusciti a darle la forza di volare da sola, nonostante le condizioni avverse. «Non abbiamo mai vissuto questa situazione come un peso o una condanna - spiega Giuliana - ma come un’opportunità di crescita per tutti». Si sono impegnati perché la figlia potesse esprimere al meglio le sue potenzialità e hanno fondato al Villaggio degli Sposi un’associazione, «La vite ed i tralci», che gestisce una «casa di scorta», come la chiamano loro, per aiutare altri come lei. Aperta dal 2016, è un luogo accogliente, vivace e colorato. È un posto che la gente del quartiere conosce e frequenta e dove, come per magia, il bene, i legami e le relazioni si moltiplicano.

La sindrome di Prader Willi è una malattia genetica rara che riguarda, secondo le statistiche più recenti, circa un neonato ogni 25 mila. È il risultato di un’anomalia sul cromosoma 15 e colpisce l’appetito, la crescita, il sistema ormonale, il metabolismo, le funzioni cognitive e il comportamento. «Quando è nata Michela, nel 1980 - racconta Giuliana - era pressoché sconosciuta. Lei aveva un’ipotonia dei muscoli così accentuata che i medici pensavano che fosse affetta da una paralisi cerebrale. Era come una bambola di pezza, non reagiva agli stimoli. Facendole il bagnetto, però, si sono accorti che nell’acqua si muoveva, perciò la diagnosi è cambiata, anche se i pediatri non riuscivano a dirci di preciso quale fosse il problema. Ci sono voluti due anni e mezzo per scoprirlo».

Giuliana e Mario, però, superato il durissimo impatto iniziale, si sono incamminati sulla strada della speranza, e non hanno lasciato nulla di intentato: «Abbiamo seguito il consiglio degli specialisti di offrire a Michela più stimoli motori possibile, facendole fare “ginnastica passiva”. All’inizio lei era debole, non riusciva neanche a mangiare, ma pian piano la situazione è migliorata. A otto mesi stava seduta, a un anno e mezzo ha incominciato a camminare, noi ci sentivamo molto rincuorati. Poi però abbiamo scoperto un’altra anomalia: dal momento dello svezzamento il ritmo di crescita dovrebbe rallentare, invece lei continuava ad aumentare di peso, anche dopo aver ridotto le quantità e la frequenza dei pasti. A quel punto i pediatri che la seguivano hanno pensato a una disfunzione metabolica e ci hanno indirizzato all’ospedale Sacco di Milano, per nuove analisi. Così siamo arrivati alla diagnosi». La sindrome di Prader Willi è la causa genetica più comune di obesità: «I medici ci hanno spiegato quali erano i sintomi, ci hanno detto che non esisteva una terapia farmacologica, ma che avremmo sempre dovuto farle fare attività sportiva e indurla a seguire una dieta molto rigorosa. A una persona con questa malattia, infatti, basta assumere un terzo delle calorie di un regime alimentare standard. Non più di ottocento-mille al giorno: oltre questa soglia, seguendo un’alimentazione normale, anche se priva di eccessi, a lungo andare possono nascere grossi problemi. A causa della malattia viene a mancare anche il senso di sazietà e il risultato è che nostra figlia aveva sempre fame, avrebbe voluto mangiare continuamente. L’unico rimedio era tenerla sempre occupata, in modo che non pensasse al cibo».

Così è iniziata una nuova avventura per tutta la famiglia, che nel frattempo si era allargata: «Ho avuto altri due figli, Monica e Matteo, in tempi molto ravvicinati, ed è stato un grande aiuto per Michela, perché lei cercava di imitarli in tutto e loro la coinvolgevano nei giochi. Portavo tutti insieme in piscina e in palestra, e forse non è stato casuale che due miei figli abbiano scelto professioni legate allo sport. L’ultimo fratello, Nicola, è arrivato dieci anni dopo, e Michela ha fatto da vice mamma, si sentiva responsabile e anche questo l’ha aiutata a crescere e a sviluppare nuove competenze».

Intanto l’agenda di Giuliana e dei suoi quattro bambini era sempre piena di appuntamenti: passeggiate, corsi di basket e di pallavolo, equitazione. Il percorso scolastico non è stato facile: «Fino alle scuole medie la distanza tra Michela e i suoi compagni non era significativa, aveva un ritardo cognitivo molto lieve. Alle scuole superiori ha avuto qualche difficoltà in più ma è riuscita comunque a concludere con successo il suo percorso. Ha frequentato l’istituto professionale Malj Tabaiani a Ponte San Pietro, con indirizzo aziendale. Noi abitavamo a Treviolo dove avevamo una piccola azienda, abbiamo pensato che avrebbe potuto lavorare lì, e così è stato. Ora uno dei nostri figli è subentrato a mio marito e Michela lavora con lui, part time. Ci siamo sempre preoccupati del suo futuro, ed è stato allora che abbiamo incominciato a pensare a una casa dove potesse portare avanti i suoi interessi, magari in convivenza con altre persone. Temevamo che non riuscisse a conquistarsi una completa autonomia, invece ci ha sorpreso».

Michela fa parte della squadra di nuoto della Phb, Polisportiva bergamasca onlus, con cui svolge anche attività agonistica, ed è lì che ha incontrato il giovane che poi è diventato suo marito: «L’unico compito domestico che non può svolgere - racconta Giuliana - è cucinare, perché la tentazione di mangiare più del dovuto sarebbe troppo forte. Ci pensa suo marito, si aiutano a vicenda. Continua con regolarità gli allenamenti, perché l’ipotonia col tempo migliora ma non scompare mai del tutto. L’attività fisica aiuta molto anche dal punto di vista psicologico». Michela ha imparato a ricamare, disegnare, tessere, modellare la creta, realizzare lavori di decoupage: «Abbiamo sempre cercato di non lasciare momenti vuoti nelle sue giornate, anche questo l’ha aiutata a mantenere il peso entro i limiti, quindi a non ammalarsi».

Le complicazioni più frequenti per le persone con Prader Willi e le cause di morte sono infatti legate all’obesità: «Quando nostra figlia era piccola - racconta Mario - i medici indicavano un’aspettativa di vita molto bassa, molti pazienti non riuscivano a superare l’adolescenza, ma questo dipendeva da diagnosi tardive e quindi dalle patologie generate dalla mancanza di cure specifiche. Noi non ci siamo mai dati per vinti».

Per rispondere alla mancanza di informazioni sulla Prader Willi Mario e Giuliana nel 1991, con l’aiuto dei medici che seguivano la figlia, hanno fondato la prima associazione nazionale di famiglie dedicata a questa malattia. «I problemi più gravi - spiega Mario - si manifestano di solito alla fine delle scuole superiori, quando viene meno qualunque sostegno alle famiglie e le possibilità di socializzazione si riducono. I centri dedicati alle disabilità non sono attrezzati per affrontare questa sindrome e in particolare i problemi legati all’alimentazione». Così, quando Giuliana e Mario si sono ritrovati da soli, con i figli ormai cresciuti e indipendenti, hanno pensato di dare vita alla casa che avevano sognato: «La nostra famiglia è sempre stata aperta, abbiamo avuto anche alcune esperienze di affido, così è maturata la decisione di mettere la nostra esperienza a servizio di altri». Hanno cercato uno spazio adatto e lo hanno trovato al Villaggio, in via Guerrazzi: un open-space al piano terra, adatto a ospitare i laboratori e una palestra, un grande appartamento al primo piano che può accogliere fino a otto ragazzi, tutt’intorno un grande spazio verde con serre, campi coltivati e animali da cortile.

«Desideravamo creare un ambiente familiare dove i ragazzi potessero divertirsi, esprimersi, svolgere attività, apprendere stili di vita compatibili con la loro patologia. Possiamo contare su una ventina di volontari, a ognuno dei quali richiediamo un impegno di un paio d’ore la settimana per stare accanto ai ragazzi, svolgere lavori manuali e artistici, dal disegno alla tessitura. Abbiamo galline, conigli, uccellini, criceti, tartarughe, oche, papere, una cavalla e un cane. Ai ragazzi con Prader Willi piace molto prendersi cura degli animali. Ci sono anche istruttori volontari, uno dei quali è mio figlio, che propongono attività sportive».

«La vite ed i tralci» (www.laviteeditralci.it) funziona come centro diurno per persone con Prader Willi ma ne accoglie anche altre con disabilità diverse che possono comunque trarre giovamento dalle stesse regole e attività, come alcuni ragazzi autistici e con sindrome di Down: «Ci capita anche di ricevere allievi delle scuole vicine con difficoltà di inserimento scolastico, che svolgono alcune attività pratiche con noi, accompagnati dagli insegnanti di sostegno. Abbiamo un forte legame con la parrocchia e il territorio, i ragazzi dei gruppi di catechesi vengono per compiere esperienze di volontariato. Ci sono poi studenti universitari che si fermano per i tirocini, e giovani di altre comunità, come Casa Amadei, che vengono a darci una mano nella cura degli spazi esterni».

L’accoglienza della piccola comunità si propone come «sollievo» alle famiglie: «Gli otto posti, a rotazione, sono sempre occupati. Da quando abbiamo iniziato siamo diventati un punto di riferimento prima lombardo e poi nazionale. Arrivano ragazzi dal Friuli, dalla Toscana, dall’Abruzzo, da tutta Italia. Si fermano per soggiorni di durata variabile, a seconda delle necessità. Pensiamo che questa possa anche diventare una dimora definitiva per qualcuno che sia rimasto senza famiglia. E ci auguriamo che la nostra esperienza diventi contagiosa».

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