Un’altra carezza di Francesco
Il Papa chiama L’Eco di Bergamo

Martedì 14 aprile alle 18,30 il Pontefice ha telefonato al direttore del nostro quotidiano: «Dare i nomi alla gente che muore e raccontare le loro storie è un’opera di carità molto grande per la quale vi ringrazio davvero tanto».

Un’altra carezza di Papa Francesco. Come quella che aveva voluto rivolgere a tutti i bergamaschi con una telefonata nella tarda mattinata del 18 marzo al vescovo Francesco Beschi. Come quella che aveva voluto dare a tutti gli italiani all’inizio della Settimana Santa, il 3 aprile, richiamando lo stesso gesto che Papa Giovanni XXIII aveva fatto nell’ormai celeberrimo «Discorso alla Luna» che l’11 ottobre del 1962 chiuse la prima giornata del Consiglio ecumenico Vaticano II. Ieri, con la stessa intensità e con le stesso amore paterno, un’altra carezza Papa Francesco l’ha voluta dare a «L’Eco di Bergamo» per «la grande opera di carità che state facendo nel ricordare quotidianamente le vittime del coronavirus».

La telefonata arriva sul far della sera, una manciata di minuti dopo le 18.30 da un numero sconosciuto. Sono tentato di non rispondere, ma nell’ultimo mese e mezzo sono state molte le telefonate di colleghi di mezzo mondo che volevano parlare con il giornale e non mi sembrava corretto lasciare qualcuno di loro senza risposta. Così rispondo: «Sono il Papa» mi sento dire. In effetti la voce era proprio la sua, ma deve essermi uscito un «Santità?» talmente sorpreso che il Papa sgombra subito il campo con la sua consueta bonomia: «Si, si, sono il Papa. Ogni volta che chiamo qualcuno al telefono pensano tutti a uno scherzo, ma sono io davvero».

E la «carezza» arriva subito, carica di commozione e di compartecipazione al dolore di tutta la nostra terra. «Io vorrei ringraziare voi - dice subito Papa Francesco - per il ricordo che fate tutti i giorni dei defunti e per il vostro prezioso lavoro. Dare i nomi alla gente che muore e raccontare le loro storie è un’opera di carità molto grande per la quale vi ringrazio davvero tanto». Nel breve scambio di battute, entrambi sottolineiamo «il dramma nel dramma» di questa dolorosissima tragedia, il fatto cioè che spessissimo chi ha perso la vita a causa del Covid-19, l’ha fatto in totale solitudine, senza nessuno degli affetti più cari che potesse tener loro la mano all’esalare dell’ultimo respiro, senza nessuno in commosso raccoglimento dietro il feretro lungo i viali dei cimiteri. «Si, è molto triste - commenta il Papa - e credo che questo renda ancora più difficile il vostro lavoro, ma credo anche lo impreziosisca ancor di più. E proprio per questo torno a ringraziare lei, e attraverso di lei, tutto il giornale, per la grande, grande opera di carità che fate tutti i giorni».

Già, carità e misericordia sono la cifra del pontificato di Francesco, perché rappresentano inequivocabilmente il volto concreto di Dio. La misericordia, il Papa, l’ha celebrata con un anno giubilare speciale, ma è attraverso la compassione, la tenerezza, la consolazione e la carità che viene esercitata. Dall’inizio del pontificato è stato chiaro a tutti che la carità sarebbe stato il «filo rosso» - pungente e provocatorio - dell’azione pastorale di Francesco, un nome non scelto a caso. Del resto uno dei cardinali amici di Bergoglio, il brasiliano Cláudio Hummes, in conclave glielo disse senza giri di parole: «Non ti dimenticare dei poveri». E proprio Papa Francesco in prima persona ha fatto dell’annuncio della carità l’«abito» del proprio pontificato. Per questo Francesco è un uomo e un cristiano credibile.

Da quando è salito al soglio di Pietro, non ha mai smesso di ricordare alla Chiesa e ai credenti il compito della carità, che - tradotto - vuol dire farsi prossimo, occuparsi realmente dei poveri, sporcarsi le mani, farsi «ospedale da campo». «Come vorrei una Chiesa povera dei poveri» ha più volte detto. La prima autentica riforma della Chiesa è il ritorno al Vangelo. Ma non c’è ritorno all’originario sovvertimento di Gesù se non si sceglie la carità. «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze» scrive nell’Evangelii Gaudium. E, poi, ancora: «La storia della Chiesa è storia di carità. La carità è il cuore della Chiesa». La carità è assumere la storia degli ultimi, quella preferito da Dio, per guardare e amare l’umanità. Non dobbiamo fraintendere, però: quest’uomo, credente, dall’andatura condottiera che non teme di sfidare perfino il silenzio di Dio in una Piazza San Pietro deserta (ma non vuota); questo anziano Papa che inizia il suo pontificato proprio a Lampedusa, porto degli immigrati, visita i campi di accoglienza dei profughi a Lesbo, siede alla mensa dei miseri della città, ebbene quest’uomo sa precisamente il perché dei suoi gesti: «La carne dei poveri è la carne di Cristo».

La sua è una professione di fede. Se proprio vogliamo vedere il volto di Dio, allora abbassiamoci a lavare i piedi dei nuovi poveri, dei nuovi e affamati (e chissà quanti ce ne saranno, quando avremo chiuso con l’emergenza coronavirus), facciamoci prossimo sulle strade del mondo di chi non ha casa dove ripararsi. Oggi, potremmo indossare un camice e stare nelle nuove trincee quali le corsie di un ospedale, o dare aiuto all’anziano del quartiere o di una casa di riposo. E Francesco, come ha scritto nel messaggio per la 3ª Giornata mondiale dei Poveri, non smette di ricordarci che proprio «i poveri ci salvano perché ci permettono di incontrare il volto di Gesù». Questa è la verità di un uomo che non vuol fare «soltanto» della carità, ma vuole essere carità.

Tema con cui si chiude anche la telefonata: «Prego per lei - dice congedandosi Papa Francesco - e lei lo faccia per me, per favore». Certo, Santità, ma non lo farò soltanto io: con me ci saranno tutti coloro che vedono in Lei il volto vero della carità.

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