Delta Index
Lunedì 15 Dicembre 2025
«Colloqui standard? Meglio i giochi:
funzionano e mostrano il vero sé»
CAPITALE UMANO. Il professor Solari (UniMI): «Attenzione a non improvvisare perché hanno efficacia solo se validati psicometricamente e progettati per leggere davvero i comportamenti, non come un Angry Birds aziendale»
«La qualità dei processi di selezione del personale oggi è, nella migliore delle ipotesi, bassa». Luca Solari, professore ordinario di Scienze Sociali e Politiche all’Università degli Studi di Milano, apre così la conversazione con l’ Osservatorio Delta Index sul futuro del recruiting . La sua non è una provocazione, ma la sintesi di anni di studi: «Un’intervista non strutturata spiega meno del lancio di una moneta le caratteristiche della persona, eppure molti selezionatori restano convinti di riuscire a capire tutto». È proprio in questa distanza tra ciò che si pensa di valutare e ciò che realmente si misura che si inserisce la gamification, non come un espediente ludico, ma come un modo per affrontare l’inefficienza dei metodi tradizionali.
I vantaggi
Le radici della gamification non nascono nelle aziende, ma negli studi sulle community online dei primi anni Duemila. «World of Warcraft, EVE Online: quei mondi sono stati oggetto di vere etnografie digitali - ricorda Solari -. Si cercava di capire cosa rendesse quei contesti così motivanti e perché le persone vivessero con tanta intensità le dinamiche di gioco». Parallelamente, la psicologia iniziava a interrogarsi sulla forza dei meccanismi ludici, e un contributo decisivo veniva dal lavoro della game designer Jane McGonigal. «In Reality is Broken sostiene che il problema non è che le persone fuggono dalla realtà, ma che nella realtà non trovano le condizioni positive che trovano nei giochi: sfida, gratificazione, riconoscimento, la sensazione che le proprie azioni abbiano un impatto». Elementi che, tradotti nel linguaggio organizzativo, significano motivazione autentica e una diversa qualità dell’esperienza lavorativa, soprattutto nei contesti più rigidi.
Il vantaggio principale della gamification, spiega Solari, è che permette di osservare comportamenti più spontanei dei test tradizionali e delle classiche prove di selezione. «La selezione funziona solo se le persone sono motivate. Se presenti un test a qualcuno che non ha voglia di compilarlo, ciò che misuri non rappresenta le sue reali caratteristiche». Il gioco, invece, attiva in modo naturale engagement e curiosità, favorendo una partecipazione meno difensiva e più sincera. Molti giochi consentono di osservare capacità come problem solving, gestione della pressione, collaborazione, rapidità decisionale e orientamento al risultato, ma anche lo stile con cui le persone affrontano compiti nuovi o ambigui. Non solo: la gamification permette anche di stimolare comportamenti desiderati. «Se vogliamo favorire collaborazione o innovazione, possiamo creare setting simili ai giochi, con obiettivi chiari e payoff espliciti. Le persone non cambiano perché qualcuno lo ordina, ma perché vogliono fare bene nel gioco, vogliono dimostrare qualcosa a se stesse e agli altri».
Il rischio nella progettazione
Ed è proprio sulla progettazione che Solari vede il rischio maggiore. «Ci sono troppe persone che si improvvisano. Prendono un gioco, cambiano due elementi grafici e lo vendono come Angry Birds aziendale. Questo non è gamification, è cattiva consulenza». La questione non è estetica, ma metodologica: «Un gioco usato per la selezione deve essere validato psicometricamente, per dimostrare che ciò che misura corrisponde davvero alla capacità dichiarata». Inoltre, un designer competente deve conoscere la vasta letteratura sui profili dei gamers. «C’è chi gioca per vincere, chi per socializzare, chi per esplorare, chi per disturbare gli altri. Se progetto un gioco solo per chi vuole vincere, escludo gran parte dei comportamenti possibili, e ciò che osservo diventa poco interpretabile». Per questo il professore insiste sulla necessità di costruire esperienze complesse, che diano spazio a stili diversi e non si limitino alla logica della competizione pura, tanto rassicurante quanto fuorviante per chi guarda solo alla classifica finale.
Utile per diverse età
Negli ultimi anni la gamification è stata spesso presentata come lo strumento ideale per dialogare con la Generazione Z, ma Solari invita alla cautela. «L’interesse per il gaming nasce con i Millennials. Parlare di gamification “per i giovani” è più marketing che scienza. Non c’è ricerca che dimostri che funzioni solo con alcune generazioni». La variabile decisiva, infatti, non è l’età anagrafica ma il linguaggio di gioco appreso nella crescita. «Le abitudini di gioco sono culturali. Chi è cresciuto con la briscola reagisce in un modo, chi è cresciuto con Clash of Clans in un altro. Il punto non è la generazione, ma il tipo di esperienza ludica che ha modellato il modo di affrontare il gioco». Questo significa che un progetto serio deve partire dall’analisi del target reale, non da etichette generiche sulle generazioni, e che la stessa azienda potrebbe aver bisogno di giochi diversi per popolazioni diverse al suo interno.
I consigli per gli imprenditori
Prima di pensare al gioco come a una bacchetta magica, però, Solari invita chi si occupa di risorse umane a fare un esercizio di onestà intellettuale sui propri processi: «Chiedersi che cosa stiamo davvero valutando, quanto riusciamo a misurarlo e quanto invece ci affidiamo all’impressione del momento è già un passo di maturità. La gamification non sostituisce il giudizio professionale, ma può costringerlo a uscire dall’improvvisazione e a confrontarsi con dati e comportamenti osservabili». Una sfida culturale prima che tecnologica. Alla fine, cosa direbbe Solari a un imprenditore un po’ scettico? La sua risposta è diretta: «Oggi molte organizzazioni usano processi di selezione costosi e poco precisi, e faticano ad attrarre giovani talenti. La gamification offre tre opportunità: presentarsi come organizzazione innovativa, ripensare dall’interno ciò che i selezionatori cercano davvero e ridurre i costi, perché la selezione è un costo di struttura». Per il professore, sperimentare non significa buttare via ciò che esiste, ma metterlo alla prova: «La scelta non è tra il colloquio tradizionale e il gioco miracoloso, la scelta è tra continuare a fidarsi dell’intuizione o iniziare a misurare in modo più serio ciò che accade». E conclude: «La questione non è se la gamification sia una moda. La questione è: può davvero permettersi di non sperimentare strumenti che potrebbero funzionare meglio di quelli che usa oggi?».
Per approfondire il tema del rapporto tra AZIENDE e GENERAZIONE Z collegarsi al sito dell’Osservatorio Delta Index e di Skillherz
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