Lunga la strada
contro la violenza

«Non avete idea di quello che vi attende, mie care signore. Stiamo tornando dritte nella preistoria». Nel romanzo distopico «Vox» di Christina Dalcher (Nord) le donne non possono pronunziare più di cento parole al giorno.

Sono costrette a indossare un braccialetto che tiene il conto; se qualcuna supera il limite la punizione è una scossa elettrica. Non hanno più passaporto, conto in banca, lavoro e neppure l’accesso ai libri. Jean McClellan è una scienziata e ottiene una deroga: è l’unica che ha la possibilità di ribellarsi e di cercare una possibilità di riscatto.

Le distopie a sfondo «femminista» si sono moltiplicate negli ultimi anni, di pari passo con movimenti come #metoo, in America, contro le discriminazioni e le violenze di genere. Sono il segno di un timore diffuso che l’autonomia e i diritti delle donne siano messi in discussione, come in effetti avviene ancora in molti Paesi del mondo, a volte perfino in quelli apparentemente più avanzati. Segue gli stessi temi e lo stesso filone anche «Miden» di Veronica Raimo (Mondadori), una storia di abusi ambientata in una società ideale, una sorta di eden di eguaglianza e benessere, ottenuti a prezzo di un ossessivo controllo e del rifiuto di ogni «diversità». A fare da madrina a questo filone, negli anni ’80, è stata Margaret Atwood con «Il racconto dell’ancella», di recente tornato d’attualità grazie a una trasposizione televisiva di successo. Continua il discorso con l’irriverente «Il canto di Penelope» (ripubblicato in nuova edizione da Ponte alle Grazie), dove è la moglie fedele di Ulisse a offrire una diversa prospettiva sull’universo femminile, sovvertendo il mito, la tradizione e gli stereotipi. 

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