Telefonate nel vento
per alleviare il dolore

«C’è questa cabina telefonica in mezzo a un giardino, su una collina isolata dal resto. Il telefono non è collegato ma le voci le porta via il vento». A Bell Gardia, nel Nord Est del Giappone, affacciato sulla baia di Otsuchi, esiste davvero il luogo di cui parla Laura Imai Messina - scrittrice italiana che vive a Tokyo - nel romanzo «Quel che affidiamo al vento» (Piemme).

È la meta di un pellegrinaggio incessante di persone che alzano il ricevitore e compongono il numero, pur sapendo che si tratta solo di un gesto simbolico - per dire ai loro cari scomparsi ciò che in passato hanno taciuto, per mancanza di tempo o di coraggio. In quella cabina ognuno, come Peter Pan, cerca di «ricucire» la propria ombra, con la consapevolezza che «un uomo bastava tacerlo per eliminarlo per sempre. Per questo serviva ricordare le storie». Il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti in questo posto speciale si assottiglia. La presenza del vento è così forte nella narrazione da assumere le caratteristiche e lo spessore di un personaggio vero e proprio: spinge e trasporta le parole, è capace di sussurrare in modo delicato, di suscitare emozioni, ma anche di modificare in modo forte, violento perfino, le traiettorie dei personaggi.

La protagonista Yui ha perso la madre e la figlia di tre anni nello tsunami dell’11 marzo 2011. Lei per caso o per fortuna si è salvata. Sfollata in una palestra con altre 120 persone («Ma non mi sono mai sentita così sola») ha aspettato per un mese che ritrovassero i corpi prima di avere il coraggio di andarsene lontano, a Tokyo, per tenersi a distanza dal mare. A Bell Gardia incontra Takeshi, un sopravvissuto come lei, lo capisce subito dal «minuscolo angolo buio» che scorge sul suo volto. In lui trova un affetto prezioso e solido. Come lei ha sofferto molto: ha perso la moglie, e sua figlia da quel giorno rifiuta di parlare, perché «nei bambini anche i sentimenti possono farsi materia e spesso si incastrano in gola». Yui si è costruita una solida corazza per tenere il mondo a distanza. Osserva la realtà con prudenza, senza immischiarsi troppo, come se fosse possibile metterla in cornice. A un certo punto però scopre che «forse è il dolore che approfondisce le vite». In quel giardino trova finalmente un po’ di pace, qualcosa nel suo cuore si scioglie. Continua a porsi domande sul senso della vita e sul destino «sotto un cielo pieno di crepe», e per lei alla fine si compie un piccolo miracolo: riscopre il significato dell’amore e della speranza. L’autrice esplora l’arte di curare le ferite dell’anima senza nascondere le cicatrici, perché proprio in esse, e nella loro capacità di rimarginarsi, si nascondono forza e bellezza.

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