«La mia città è stata come una terapia»

L’INTERVISTA. Il fotoreporter rientrato nel 2000 dopo aver girato il mondo. «Cerco la vita che resiste sempre». Leggi le «Interviste allo specchio», progetto in collaborazione con Il Giornale di Brescia.

Le sue fotografie hanno una cifra che non può sfuggire: non sono mai «rubate» ma nascono da un rapporto empatico con i soggetti. Ne consegue, per chi le guarda, una spinta a immedesimarsi con le persone riprese, vittime delle guerre, delle ingiustizie sociali o di malattie. Giovanni Diffidenti, nato a Bergamo 61 anni fa, ha vissuto e lavorato in una trentina di Paesi: dalla Cambogia al Kosovo, dall’Afghanistan al Sudan, dall’Angola all’Ucraina. Le sue foto scattate nella Libia del durante e dopo Gheddafi sono state esposte nella sede dell’Onu a New York.

Come è nata la sua vocazione laica per la fotografia?

«Quando avevo 23 anni raggiunsi Londra in autobus per trovare un lavoro. Ho fatto il lavapiatti per 9 mesi in un ristorante e la mattina frequentavo una scuola per stranieri per imparare l’inglese. Ma ero attratto dal desiderio di documentare la vita degli emarginati presenti nella capitale: i disoccupati, i senzatetto, i tossicodipendenti. Ho seguito questa strada e mi sono licenziato. Ero senza soldi, un giorno però, mentre fotografavo la natura morta nel letto del Tamigi, ho trovato un anello d’oro, l’ho venduto ricavandone i soldi per vivere altre settimane».

Il destino le ha sorriso...

«Sì. Un giorno camminavo in King’s Road e ho visto la targa di quello che mi sembrava uno studio fotografico e lì ho chiesto di poter lavorare. In realtà si trattava di un laboratorio per lo sviluppo di vecchie diapositive e mi hanno offerto un posto. In quel luogo ho conosciuto però clienti importanti come il fotografo di moda Mario Testino e Lord Snowdon, il fotografo ufficiale della Regina, c’era anche Don McCullin: mi ha assunto come assistente di laboratorio e fu una scuola importante».

Sono stati quindi decisivi gli incontri e la fortuna?

«Ne ho avuta conferma quando nel laboratorio ho fatto conoscenza con un importante fotografo olandese, ritrattista impegnato anche nel campo della pubblicità. Ho iniziato a lavorare con lui, dopo un anno con un altro fotografo della Nuova Zelanda e per me lui è stato fondamentale, non tanto per la tecnica ma per come si relazionava con le persone. Dopodiché ho fatto un’esperienza come fotografo in un documentario che trattava i profughi cambogiani in Tailandia. Ritornato a Londra ho fatto le valigie e mi sono trasferito in Cambogia dove sono rimasto per due anni e mezzo. Sono stati anni molto intensi, in un Paese infestato dalle mine: ho rischiato la vita tre volte».

All’arma orrenda delle mine antiuomo lei ha dedicato parte del suo lavoro.

«Sì. Sono stato in 17 Paesi per documentare la defandezza di quegli ordigni. Le mie fotografie sono state utilizzate a sostegno della campagna che ha portato all’approvazione del Trattato di Ottawa, la convenzione sulla messa al bando delle mine antiuomo siglata nel 1997 e sottoscritta finora da 133 Stati. Le foto sono state esposte a Stoccolma in occasione della consegna del Nobel per la Pace ai promotori della campagna per il Trattato».

Nel 2000 il ritorno a casa. Perché?

«Sentivo l’esigenza di nuovi stimoli e Bergamo è stata la mia terapia. Nelle foto scattate in città per l’edizione locale del “Corriere della Sera” cerco di dare valore alla sua bellezza, a quella nascosta in particolare. Ho ritratto la mia città anche nei mesi terribili della pandemia, con uno sguardo diverso, non scontato. E poi Bergamo ha un suo lato oscuro. Tornando dai viaggi andavo sempre alla stazione delle Autolinee per documentare altro disagio, incontrato intorno alle iniziative di don Fausto Resmini. Qui ho realizzato uno dei miei lavori più difficili».

Conosce Brescia?

«Sì, l’ho frequentata per la presenza dei Saveriani, impegnati anche loro contro le mine. Ne è nata una mostra, allestita in piazza della Loggia. Per sei mesi sono stato in Bangladesh per documentare le loro iniziative a sostegno dei cosiddetti “intoccabili”, gli ultimi fra gli ultimi. E poi gli effetti dell’epilessia in Mali: le foto sono state esposte al Lingotto di Torino».

Lei instaura sempre una relazione con le persone che vuole fotografare. Perché?

«Desidero documentare le difficoltà nelle quali vivono le persone ma anche la loro forza che emerge però solo conoscendole. Nell’impatto con certe situazioni è visibile subito l’aspetto drammatico ma dietro c’è inevitabilmente altro che va scoperto, lasciando tempo perché emerga. Si tratta di trovare l’equilibrio evitando gli eccessi. Fotografo persone in condizioni durissime: ma sono persone vive ed è questo che voglio restituire a chi guarda le mie foto».

Ecco l’intervista de Il Giornale di Brescia a Renato Corsini.

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