
(Foto di Archivio Eco)
Negli anni ’60, prima dei fast food, osterie come il Caironi e l’Enotria univano cibo, amicizia e tradizione tra polenta, carte e persino lirica improvvisata.
Un viaggio dedicato agli osti delle vecchie trattorie ormai quasi scomparse in città è quello che ci regala questo racconto recuperato dai moltissimi che Renato Ravanelli, storico giornalista de L’Eco di Bergamo, pubblicava sul nostro giornale. «Avevano un’atmosfera speciale, vapori-calori-odori pregnanti; e i clienti erano per lo più particolari, a modo loro personaggi». Ce n’erano un po’ ovunque in città e negli anni Cinquanta-Sessanta qualcuno le chiamava ancora «trani», dal nome che gli era stato dato quando alcuni osti, venuti su dal Sud, s’erano messi a vendere quel loro vino forte, duro, non sempre tagliato con i nostri debolucci.
C’è un sacco di letteratura su molte di quelle osterie e trattorie. «Da quella “del Maurino”, che veniva presa d’assalto nel giorno della Fiera dei biligocc, in pieno centro, a quelle dei borghi (le più famose) e di Città Alta. I tavolini con i sedili di pietra all’aperto, il gioco delle bocce, i pergolati, i banchi che allineavano i quarti, litri e mezzi litri di vetro dalla foggia panciuta e inconfondibile, i boccali con le scritte viva io e abbasso la suocera». I loro nomi erano: il Caironi, l’Enotria, il Gamberone, il Litrone, la Scopa, dell’Angelo, l’Aurora, il Selemino, la Tre Corone, la Pace, la Fede, la Pergola, del Maggi, del Teatro, la Meta Ripa, i Bei Tep, la Scaletta...
«A caccia di trattorie e di osterie a Bergamo, ancora negli anni Sessanta potevi tra l’altro imbatterti in uno spettacolo d’altri tempi: la lirica in osteria. Era una cara consuetudine, dopo teatro, ritrovarsi in trattoria a discutere sulle interpretazioni, sull’orchestrazione, sulle scene. E lo spettacolo continuava. C’era l’“applauditore” che balzava improvvisamente su una sedia e dava via libera alle sue corde vocali; e c’era a volte anche qualche cantante “vero” che poco prima s’era esibito in teatro e che, dopo una bella polenta e osei, concedeva alla platea di super appassionati il bis della serata».
Questi locali hanno resistito così numerosi fin poco dopo l’ultima guerra. Oggi, dopo lo spettacolo, i cantanti famosi non entrano più in trattoria a cantare (purtroppo) e i clienti hanno un atteggiamento un po’ più riservato. «Tavolini appiccicati e comuni dove si sedevano in gioiosa, familiare, promiscua complicità, l’operaio, lo studente, il giovane professionista risparmioso, l’ubriacone, la vecchia prostituta già al lavoro a metà mattina».
C’era anche un altro motivo per andare in osteria: erano certe interminabili partite a carte (la morra era per lo più giocata e urlata nei paesi). Così venivano descritte: «L’odore acre del tabacco, il fumo che avvolge le luci fioche, il sommesso vociare interrotto di tanto in tanto dalle urla dei giocatori, il vino che scorre, le carte da gioco gettate sui tavoli con voluta violenza».
Una volta questi luoghi, soprattutto in provincia, erano il centro della vita di quartiere. Oltre al canto e al gioco delle carte, si andava in trattoria anche per il cibo che ruotava attorno al piatto principe, la polenta, che veniva cucinata sul fuoco del grande camino, in un paiolo e soprattutto come «la regola» comanda. Per la polenta e osei è stata a lungo famosa la Trattoria del Teatro (il Sociale) in Corsarola, dove per trovare un posto bisognava spesso prenotare con giorni d’anticipo. Negli anni Trenta, tra l’altro, la trattoria divenne una meta obbligatoria per molti cantanti e musicisti del «Teatro delle Novità» e, comunque, della stagione lirica al Donizetti. «Clienti meno illustri ebbe la Meta Ripa, che comunque per fama (e per posizione) aveva ben pochi rivali. Dalla sua terrazza-veranda si godeva una vista incomparabile su parte della città (sia alta che bassa) e sulla immensa pianura verdeggiante; lindura e bonarietà trasparivano nella bella stagione dai tavoli apparecchiati sotto il pergolato di glicine e ingentiliti da fiori di campo. Sempre si avvertiva profumo di polenta e di gustose pietanze». Mitica era anche la trattoria del Maggi alla Fara (specialità trippa). Così veniva descritta: «Un ampio tinello luminoso si apre verso Sant’Agostino e le montagne azzurrine. Ecco la zainera ricca di piatti e di boccali; e la barlassa di ottone. Ecco l’oste seduto al banco, sotto la finestra che spia sul gioco delle bocce. Sopra la porta d’entrata sono appese quattro gabbiette e tre tordi chioccolano proponendo ricordi di roccoli, di uccellatori e di richiami. E in questa trattoria per pelare il salame puoi anche usare le dita se ti servono meglio della forchetta. E che salame!».
Quando uscivi, la visione di Sant’Agostino e della Fara era il miglior... digestivo.
Non poteva mancare il ricordo di Renato Ravanelli (spentosi nel febbraio 2018), il giornalista che nella sua vita professionale ha raccontato in oltre 50 libri e sulle pagine dei quotidiani della nostra città (compreso il nostro) le storie di sport e di vita che hanno costruito l’identità bergamasca.
Aveva un gusto raffinato per le vicende cittadine, mai con sapore polemico, perlopiù con stile discorsivo e logico. Nato nel 1936, ha iniziato al Giornale del Popolo nel 1961 come cronista, ma poi Mons. Andrea Spada lo chiamò due volte a L’Eco. La prima volta nel 1970 per occuparsi di Interni ed Esteri e poi nel 1980 per dirigere le pagine sportive, Bergamo tv e Radio Alta. Aprì le porte del giornale agli sport minori, soprattutto in provincia. La sua capacità organizzativa e la cura del linguaggio gli hanno consentito di dare vita ad una produzione editoriale eccezionale.
Tra i racconti dello scrittore bergamasco Geo Renato Crippa (1900 - 1981) c’è quello legato alla Trattoria del Teatro in Città Alta, meta di numerosi artisti.
Foto della copertina del libro (a lato come le altre)
Così raccontava «Li accompagnava quasi sempre Bindo Missiroli e con lui superavano la soglia, dopo aver salito i tre gradini all’entrata. Era allora che Luigi Oreni, l’oste della trattoria, cominciava a girare nello stanzone fregandosi le mani in una sua maniera specialissima. Scendeva in cucina, portava piatti, poi ancora piatti: insalatina di giardino, verde e tenerina come la primavera, patate condite all’eccesso e alla brava, pregne di olio e di aceto, barbabietole, cipolle appena tolte dal forno, pesciolini in carpione...». Tra i clienti illustri Gianandrea Gavazzeni, l’ingegner Luigi Angelini e l’architetto Pino Pizzigoni. «Silenziosi come i gatti di Voltaire, procedevano sempre in estasi. Mai stanchi nei loro cervelli».
Nel giugno 2012 Borgo Palazzo perdeva uno dei suoi personaggi simbolo: Maria Caironi (detta Mariuccia), la prova provata che per conoscere il mondo non è necessario viaggiare, ma è sufficiente preparare un buon piatto di polenta. Già, perché nei suoi oltre 50 anni trascorsi dietro i fornelli della Trattoria Caironi di Via Torretta 6B, Mariuccia ha visto sedere ai tavoli persone provenienti da ogni luogo. In quella che nel Settecento era la sede di un convento, i suoi genitori avevano aperto nel 1928 un’osteria con gioco delle bocce e biliardo. Mariuccia se ne è presa cura e ne ha custodito l’anima: ha mantenuto un ambiente tranquillo e autentico e ha trasmesso i segreti della cucina ai suoi figli: Lorella e Sergio che ancora oggi accolgono bergamaschi e turisti con i piatti della tradizione che i clienti chiedono e apprezzano.
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