L’illusione digitale dell’eternità

Ridare vita ai volti dei defunti con l’AI: una richiesta sempre più diffusa sui social che, dietro l’emozione, porta con sé dubbi profondi su ciò che è giusto, umano e davvero necessario.

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Tra le community più attive dei social troviamo quelle dedicate alle foto del passato («come siamo», «come eravamo»). Ritratti di famiglia e ricordi di altri tempi: si moltiplicano i post che chiedono un piccolo «miracolo» digitale, «qualcuno può animare questa foto in cui sono con mio padre?», «vorrei vedere mia nonna sorridere di nuovo, eravamo insieme quel giorno».

Non si tratta solo di far rivivere i volti dei defunti, ma di restituire movimento a un ricordo condiviso, spesso fissato in uno scatto che ritrae chi resta accanto a chi non c’è più. L’Intelligenza Artificiale, con le sue potenzialità sempre più raffinate, offre strumenti in grado di animare sguardi, sorrisi, perfino parole. È una nuova frontiera del progresso tecnologico che si inserisce nel novero delle tendenze prometeiche del nostro tempo. Esse riflettono la nostra difficoltà di confrontarci con la morte, facendoci rifugiare nell’illusione data da una tecnologia che non solo imita la vita, ma osa rievocarla dove la vita è cessata. Questa rincorsa all’immortalità digitale impone di fermarsi e riflettere. Siamo davvero pronti ad attraversare il confine ultimo dell’esperienza umana, quello della morte? Se un tempo la fotografia rappresentava un frammento statico del passato, oggi, con l’intervento dell’IA, può diventare uno spazio in cui il dolore viene sospeso o trasformato in qualcosa di più difficile da elaborare.

La possibilità tecnica di «riattivare» un volto non è neutra: cambia il modo in cui viviamo l’assenza e ci confrontiamo con la perdita. C’è una responsabilità, individuale e collettiva, nel decidere fin dove spingersi. Perché la tecnologia, oggi più che mai, non è solo uno strumento: è una scelta. Una scelta che definisce il nostro rapporto con il tempo, con l’assenza, con la memoria. L’IA non può sostituirsi alla perdita di una persona cara, ma rischia di edulcorarla, anestetizzarla, di trasformarla in uno spettacolo rassicurante che ci allontana dalla sua realtà irriducibile. In questo processo, la memoria rischia di smarrire la sua autenticità, diventando una proiezione artificiale più che un’elaborazione interiore.

Elaborare una perdita significa attraversarla, non aggirarla. E se l’immagine animata ci offre un sollievo momentaneo, può anche congelare il lutto, impedendo il lavoro silenzioso e faticoso della separazione. Animare il volto di un defunto può sembrare un gesto d’amore. Ma è anche un atto che ci pone di fronte ad un bivio: stiamo davvero onorando i nostri cari o stiamo solo cercando di non lasciarli andare?

La morte, per quanto dolorosa, resta forse l’unico limite che dovremmo rispettare. Anche (e soprattutto) quando la tecnologia ci invita a superarlo. In questo scenario si inserisce anche un altro nodo, spesso trascurato: il consenso. Possiamo decidere noi, oggi, di far «rivivere» digitalmente una persona che non ha mai autorizzato (né avrebbe potuto farlo) l’uso postumo della propria immagine in forma animata? Chi stabilisce i confini tra memoria affettuosa e violazione dell’intimità? L’uso dell’IA per ricreare movimenti, espressioni, e persino voci dei defunti, rischia di oltrepassare non solo un limite tecnologico o simbolico, ma anche un confine etico e relazionale.

La memoria, infatti, è per sua natura imperfetta, selettiva, soggettiva: ricostruirla con strumenti che promettono una «verosimiglianza» può alimentare l’illusione di un contatto, ma anche falsare il ricordo stesso, restituendo un’immagine aderente alle aspettative di chi resta più che alla realtà di chi è stato. In un tempo in cui tutto può essere replicato, manipolato, filtrato e migliorato, anche il lutto rischia di essere ridotto a una rappresentazione curata, levigata, accettabile. Ma il dolore non è mai estetico e la memoria vera è fatta anche di silenzi, di assenze, di imperfezioni.

Se perdiamo il senso del limite, rischiamo di non coltivare più il rapporto con l’assenza come esperienza umana fondamentale. Perché accettare la morte significa anche riconoscere che non tutto può essere trasformato, che qualcosa deve restare incompiuto. È in quella mancanza che si apre, talvolta, la possibilità di una comprensione più profonda del legame. E forse anche della vita stessa.

Le storie del nostro passato

Ricordare le storie dei personaggi che hanno vissuto e lasciato un segno sul territorio bergamasco è fondamentale per preservare la memoria collettiva e il senso di identità della nostra comunità. Tra questi, Betty Carol – nome d’arte di Umbertina Gamba – fu una brillante interprete del varietà italiano negli anni ’40, capace di far sognare il pubblico con la sua voce e il suo fascino. Alessandro Poli, invece, organista e compositore di Fiorano al Serio, diede vita nel 1984 alla versione musicale dell’inno dell’Atalanta di Magrin, lasciando un’impronta indelebile nella cultura sportiva locale. Le loro storie, pur diverse, testimoniano la ricchezza artistica e umana del territorio. Valorizzarle oggi significa custodire e trasmettere le radici culturali di Bergamo.

Alessandro Poli mise in musica l’inno di Magrin

Un grande artista, dotato di carisma e talento. Nato a Colzate nel 1932, Alessandro Poli si era trasferito ancora giovane a Fiorano con la moglie Lorenzina, componente del Coro che Poli aveva rifondato nel dopoguerra. Organaro e accordatore di pianoforti, Poli si era diplomato all’Istituto Santa Cecilia di Bergamo. Negli anni aveva ricostruito completamente l’organo della chiesa di San Giorgio, con il quale aveva eseguito l’oratorio «Pietro». Era una delle sue composizioni più apprezzate, insieme all’oratorio, «Obbediente fino alla Croce» e a molte composizioni del repertorio di molte corali. Il suo poema sinfonico «Quando Israele uscì dall’Egitto» per organo e voce recitante fu eseguito nel 2008 da Daniel Pandolfo nella cattedrale di Strasburgo. Poli ha seguito anche il restauro di moltissimi strumenti nelle chiese della Bergamasca. Negli anni ’70 e ’80 molti lo ricordano come tastierista della storica formazione dei Mabor, ambasciatrice della musica italiana presso gli emigranti all’estero. Nel 1984 raccolse con entusiasmo l’invito di Beppe Guerini ed Enzo Conti affinché musicasse l’inno «Forza Atalanta». Nacque così il successo del calciatore neroazzurro Marino Magrin, che per tanti anni ha salutato l’ingresso in campo delle squadre al Comunale di Bergamo. Poli ci lasciava nel marzo 2014.

Umbertina Gamba, la Betty Carol che ci fece sognare negli anni ’40

Con cipria, ciglia finte, matita sotto gli occhi azzurri, rossetti e capelli color dell’oro, scendeva le scalinate dei palcoscenici a braccetto con la Wandissima, cantando «Ti parlerò d’amor e sfoglierò una rosa». Nel 2014 Sarnico salutava la decana delle soubrette, Umbertina Gamba in arte «Betty Carol», che negli anni’40 si affermò sui più titolati palcoscenici della Rivista Italiana. A 21 anni iniziò un percorso di crescita che la portò sotto i riflettori sino a lavorare con successo accanto ad artisti come Massimo Dapporto, Walter Chiari, Gino Bramieri e Wanda Osiris e soprattutto fianco a fianco al suo grande amore, il ballerino napoletano Mimmo Ferrara. Iniziò in una piccola compagnia nel dopo lavoro e un giorno prese la valigia inseguendo il suo sogno. Cominciò con l’Operetta e come ballerina di fila fino a quando Wanda Osiris la chiamò per fare la soubrette nella sua compagnia. Erano anni scanditi dalla nascita delle prime riviste di spettacolo, con cabarettisti impegnati a regalare spensieratezza, emozioni e ilarità, tra i quali giganteggiavano Totò, Bramieri, Nino Taranto, Paolo Stoppa e Macario. Nel’47 Betty sposò il danzatore Mimmo Ferrara, la cui fama si era diffusa in tutta Europa. Per conquistarlo un giorno fuori dal palcoscenico, gli cantò «dammi i tuoi folli baci, stringiti forte a me, chiudi i tuoi occhi amore, taci voglio sognar con te». Ricevette un bel mazzo di rose. Con Betty Carol, Sarnico perdeva la sua diva.

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