Da Monterosso a Berlino e Taipei: Tonoli, un viaggio guidato dall’arte

La storia. Il pittore, nato in Toscana, è cresciuto in città. Vive nella capitale tedesca: «Contesto artistico florido». Ha esposto le sue opere soprattutto in Europa e in Asia.

Chissà se da ragazzo, trotterellando per la palestra dell’Excelsior Pallacanestro di Borgo Santa Caterina, Saverio Tonoli sapeva già che di mestiere nella vita avrebbe fatto l’artista. Forse sì, forse no. Di sicuro, mentre si esercitava fra tiri da tre punti e terzi tempi, affinava quella sua mano mancina. Se non per la palla a spicchi, di sicuro per i pennelli. Sì, perché oggi, a quasi 39 anni, Saverio, toscano di nascita ma bergamasco da sempre, è un pittore di professione affermato, con uno studio a Berlino dove vive, uno a Taipei e in carniere numerose mostre in varie parti del mondo. Il tutto partendo da Monterosso.

Tonoli, quando ha comunciato a sentire la sua sensibilità per l’arte? La sua famiglia l’ha appoggiata nelle scelte?

«Mio padre, fotografo amatoriale, aveva in cantina una camera oscura dove facevo esperimenti, disegnavo molto e costruivo oggetti strambi con materiali di recupero. Poi al liceo la professoressa di Italiano è stata la prima guida che ha consolidato e direzionato la mia sensibilità. La mia famiglia mi ha sempre appoggiato, anche perché non le ho lasciato scelta».

Insomma, un percorso nato a Bergamo, pur essendo lei nativo di Lucca.

«La tradizione di famiglia vuole che gli ingegneri lombardi studino a Pisa, trovino moglie in Toscana e tornino con loro al Nord. Quindi sono cresciuto a Bergamo, e abbiamo sempre viaggiato in Toscana per visitare la famiglia. Sono molto legato alla Lunigiana, terra dei bisnonni, dove torno spesso. La Liguria e le sue scogliere sono fonte costante di energia».

Prima delle Accademie d’arte, dunque, c’è la trafila scolastica in città. Perché si è poi trasferito a Berlino?

«Il tris di scuole bergamasche sono state Rosmini, Camozzi e il liceo Mascheroni. Poi ho studiato a Brera e all’accademia di Salamanca, e mentre frequentavo Brera vivevo un po’ a Barcellona e tornavo per dare gli esami. Una settimana dopo la tesi di laurea ero a Berlino dove ho passato l’estate e poi sono rimasto, aprendo uno studio, il mio principale. Il florido contesto artistico, le opportunità per il mio lavoro e soprattutto il lusso dell’estraneità e della solitudine hanno guidato la mia scelta».

Scelta che poi si è «estesa»...

«Grazie a due residenze artistiche dal 2019 al 2020, ho passato il primo anno pandemico tra Ho Chi Min City, Vietnam e a Taipei, Taiwan, dove ho un piccolo studio a disposizione. Ho cominciato ad avere a che fare col mercato asiatico e Taipei, che è una città che mi piace tantissimo e la città è diventata un appoggio importante, anche se per diverse ragioni irraggiungibile in questo momento».

Mantiene i suoi legami con Bergamo? Le manca un po’ la sua terra? Cosa fa di solito quando torna?

«Sì, torno a Bergamo brevemente ma con regolarità. E tornandoci spesso, ultimamente anche più per lavoro, l’Italia non mi manca. Ovviamente quando torno vedo la famiglia e gli amici, poi la mia «processione bergamasca» prevede la visita a Santa Maria Maggiore, alla Gamec e allo studio di Oscar Giaconia, collega e amico».

Potrebbe descrivere tecnicamente i suoi lavori e le sue esplorazioni?

«In camera oscura ho imparato il comportamento della luce e delle sostanze chimiche, che ho poi sostituito con il colore nella pittura; la magia della “rivelazione” dell’immagine fotografica è fondamentale, magia che ricreo con la pittura attraverso una sorta di pittura-stampa. Come base per dipingere utilizzo il gesso e la tradizionale carta asiatica Xuan (carta di riso) per la sua resistenza e malleabilità, dipingendo con inchiostri, tinture e sostanze chimiche, e montando poi la carta su tela, con tecniche di restaurazione. L’utilizzo di carta e inchiostro mi ha portato poi in Asia per approfondire aspetti tecnici e scoprire similitudini e differenze tra gli approcci orientali e occidentali allo spazio, al paesaggio, al vuoto e al caso. Questo mi ha permesso di sviscerare ancora di più la pittura in termini strutturali: la deformazione della superficie pittorica, l’installazione libera nello spazio, mettere in discussione il fronte/retro dell’immagine. Da osservatore della luce e colorista mi interessano frequenze di colore poco esplorate, ai limiti della irritazione visiva, combinazioni di colori aberranti o che non hanno collocazione precisa nella ruota. Da qui nasce per esempio l’interesse per le fotografie parossistiche che visualizzano gli spazi interstellari, a metà tra realtà e astrazione».

Dove ha potuto esporre le sue opere?

«Recentemente ho esposto a Venezia negli spazi della Fondazione Bevilacqua la Masa: una mostra personale che raccoglie 6 anni di ricerca e sfidava l’imponente architettura con dipinti a inchiostro di formato monumentale e affreschi di piccolo formato. Andando a ritroso, negli ultimi tre anni ho esposto soprattutto a Saigon, in Vietnam e a Taipei, nella fiera d’arte Taipei Dangdai art fair. Negli anni passati ho esposto in diverse gallerie e istituzioni tra Berlino, Potsdam, Barcellona, Zagabria e ho frequentato molti project spaces e teatri soprattutto a Berlino e Londra. Ho frequentato diversi workshop a Torino, invitato dagli artisti. Nel 2012 sono stato a New York in residenza artistica dal professor Rainer Crone, critico d’arte e fondatore del progetto Iccarus. Insomma, esperienze fondamentali per la mia crescita artistica».

Dopo il basket, le arti marziali. Influiscono anche sul suo lavoro?

«Detto con Jan Fabre, “l’artista del XXI secolo è un Atleta del corpo, delle emozioni e della mente”. Con le arti marziali posso allenarmi fisicamente e mentalmente in solitario. La mia pittura è piuttosto fisica e performativa: lavoro con il gesso rivedendo le tecniche d’affresco, quindi con molto peso, o su formati grandi con la carta di riso, che richiedono precisione e controllo nel dipingere, maneggiare la carta e nell’installazione del lavoro, quindi devo essere fisicamente allenato. Per fare degli esempi, gli “ink tapestries”, lavori anfibi tra l’arazzo e gli scroll asiatici, di cui l’ultimo realizzato per la mostra alla Fondazione Bevilacqua la Masa, sono pitture installative monumentali che richiedono sia delicatezza che muscolo. Mentre “Self absorbed on the rocks”, serie di lavori su carta dipinti direttamente sulle scogliere di diversi paesi, che ricreano i volumi e la texture delle rocce, sono opere che richiedono concentrazione nel muoversi e velocità nel dipingere, immerso in condizioni ambientali sempre diverse, seguendo i tempi di asciugatura della carta».

Bergamo quest’anno è Capitale italiana delle Cultura insieme con Brescia: può essere un traino per la città?

«Eventi come questi muovono di solito le acque e gli investimenti. Soprattutto dopo che Bergamo è stata al centro dell’orrore pandemico, adesso può rifiorire con la cultura. Tra le altre cose ho visto il progetto della nuova Gamec negli spazi del palasport, che sembra meraviglioso, così come l’attività dell’associazione The Blank, che tiene un livello eccellente da anni. Ecco, mi auguro che queste realtà possano essere appoggiate e crescere smisuratamente in seno alla Capitale della Cultura».

Bergamo senza confini

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