Il contatto col figlio, dono del lockdown
«Quelle mani unite, un tesoro nascosto»

Il racconto di una madre con figlio autistico. «Questo è stato un periodo bello per la mia vita».

«Qualche volta il tempo è veloce come una gazzella, altre è lento come una tartaruga. Il tempo è una balena quando ho paura e voglio essere stretto in un abbraccio». Non è facile trovare «La forma del tempo» e dargli il giusto valore, come raccontano Chiara Lorenzoni e Francesca Vignaga in un albo illustrato pubblicato da Lapis. Laura Nespoli, psicologa e maestra che vive in città, ama raccontare fiabe ai suoi alunni della scuola primaria. In questo caso, però, la lettura è diventata una guida preziosa per lei e le altre mamme dell’associazione «Costruire integrazione» - che riunisce genitori di ragazzi con diverse fragilità - per trasformare il lockdown, un momento «sospeso», pieno di paura, solitudine e di tanta fatica in un periodo d’oro: «Il più bello della mia vita» confessa, e nel dirlo si commuove.

Una rara malattia genetica

Laura ha un figlio, Ibrahim, 18 anni, nato con la sindrome di Phelan-McDermid, una rara malattia genetica, di cui non esistono più di 800 casi in tutto il mondo. È una patologia che si manifesta con disturbi dello spettro autistico: Ibrahim non parla, non riesce a star fermo e non sopporta il contatto fisico.

Ecco perché una delle immagini più forti di questi ultimi mesi, che lei custodisce come un tesoro nel suo cuore, è quella delle loro mani unite in una carezza appena accennata, un tocco leggero come le ali di una farfalla.

Ibrahim e Laura hanno trascorso insieme i mesi dell’emergenza covid, a casa: «Alla fine di febbraio – racconta – ci siamo trovati a contatto con una persona poi risultata positiva al virus, perciò ho avvertito per precauzione la struttura che ospita mio figlio e ci siamo isolati in quarantena. Poi Ibrahim è rientrato nell’istituto, ma la situazione generale della pandemia stava peggiorando. Non mi sentivo tranquilla e poco dopo ho deciso di riportarlo a casa».

Rimarginate vecchie ferite

Nessuno sapeva quanto sarebbero durate le misure di contenimento della pandemia, né immaginare cosa sarebbe accaduto. Una prova impegnativa per tutti, ma in particolare per le famiglie dei ragazzi con disabilità. Laura però è riuscita, mettendosi in gioco fino in fondo, a dare senso e spessore alla sua quarantena. «Ibrahim – racconta – è stato felice, ha potuto sperimentare cosa significhi avere intorno una famiglia per un lungo periodo, in una realtà diversa da quella della comunità dove risiede. Sono stati tre mesi molto intensi, i più belli della mia vita, una rivoluzione per me e per lui».

È stata anche un’occasione per rimarginare vecchie ferite. I primi anni dopo la nascita di Ibrahim, infatti, sono stati complicati: «Una mamma sente quando qualcosa non va, e quando mio figlio aveva otto mesi me ne sono resa conto chiaramente: aveva un tono muscolare basso, non stava seduto, aveva uno sguardo vispo e presente ma a volte sembrava che si spegnesse un interruttore interno». Nessun altro, però, comprendeva le difficoltà del bimbo. Ci sono voluti anni di visite, esami, consulti, prima di arrivare a una diagnosi, anche perché quell’anomalia cromosomica allora non aveva ancora un nome: «Ho svolto molte ricerche, l’istituto Mario Negri mi ha messo in contatto con un’altra famiglia in una situazione simile, insieme siamo riusciti a trovare informazioni preziose ottenendole da contatti con altri genitori negli Stati Uniti».

Il matrimonio difficile

Il matrimonio tra Laura e il padre di Ibra, di origini senegalesi, era il frutto di un grande amore, che aveva superato molti ostacoli, compresi i pregiudizi della gente, ma di fronte alla necessità di affrontare e accettare le «differenze» di Ibrahim, affiancarlo nelle terapie, offrirgli l’assistenza costante di cui aveva bisogno, questo legame si è deteriorato, fino a sciogliersi. Laura, con sofferenza, si è trovata sola: «Abbiamo continuato con tantissime fatiche questa vita fino a quando Ibrahim ha compiuto sette anni: io lavoravo, a scuola mio figlio aveva un insegnante di sostegno, i nonni cercavano di darmi una mano, ma accudirlo era veramente impegnativo, dipendeva da me in tutto come un neonato, non era possibile lasciarlo solo neanche per un momento, la presenza di altre persone lo turbava, quando tornava a casa buttava tutti gli oggetti che trovava a terra, spesso non riuscivo nemmeno a dargli da mangiare. Vivevo nell’illusione che l’amore di una madre potesse bastare, poi mi sono resa conto di aver esaurito tutte le mie forze, non riuscivo più nemmeno a farlo sorridere».

L’accoglienza in un istituto

Laura si è chiusa in se stessa, mentre intorno a lei proseguiva un rapido turn over di educatori e insegnanti. «Quando Ibrahim aveva cinque anni, la dottoressa che gestisce il Progetto sollievo autismo -Spazio famiglia di Torre Boldone ci ha suggerito di valutare per lui l’accoglienza in un istituto. Ci ho riflettuto, pian piano è maturata la decisione: ci sono voluti altri due anni prima che entrasse in una comunità e ho avuto tempo per elaborare il distacco. È stato comunque doloroso, la sera giravo per casa e guardavo il suo letto vuoto».
Ibrahim è sempre tornato con lei ogni fine settimana e durante le vacanze estive, e intanto Laura ha proseguito la sua formazione come psicologa concentrandosi sul linguaggio del corpo, per creare nuovi strumenti di comunicazione: «Oggi – chiarisce – non sono la stessa mamma che ha dovuto lasciarlo in istituto undici anni fa e che vedeva la fatica, la stanchezza, i problemi come irrisolvibili. Ho maturato nuove consapevolezze e risorse. In questo mi ha aiutato molto la scrittura». Laura, infatti, ha incominciato a frequentare con altri genitori i corsi guidati da Adriana Lorenzi, in cui gli esercizi di narrazione diventavano una forma di indagine interiore, innescando un processo di auto-aiuto: «È un’opportunità che ho scoperto quando frequentavo la neuropsichiatria infantile dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo con mio figlio, e ho capito che per me poteva fare la differenza. Sentivo che era importante esprimere su carta i miei sentimenti e affidarmi a un orecchio esterno che mi ascoltasse. Scrivo di me e di Ibrahim ogni volta che qualcosa mi preme dentro, quando percepisco un’ingiustizia o una discriminazione, ogni volta che dobbiamo affrontare una crisi o una difficoltà. Mi sembra di dargli luce e dignità, di offrirgli le parole che non ha. Questo processo mi aiuta a cambiare sguardo. Ho spesso letto questi testi ad alta voce ai miei genitori per mostrare loro aspetti di Ibrahim che normalmente non emergono. Mio padre qualche settimana fa ha avuto un ictus e a causa della pandemia non possiamo neanche andarlo a trovare. Ha un legame molto forte con il nipote, si sono visti in videochiamata guardandosi negli occhi e sorridendo, un momento intensissimo».

Da quando Ibrahim vive in comunità Laura ha creato nuove connessioni, è entrata a far parte del gruppo di «Costruire integrazione» che promuove tante iniziative, dagli incontri alle vacanze al mare: «Scambiarsi esperienze, condividere momenti di svago, accogliere nello stesso luogo fragilità diverse è un’esperienza bellissima e produce a volte esiti sorprendenti. Durante il lockdown abbiamo creato “Emozioni in scatola”, una stanza su una piattaforma online: partecipano undici mamme, finora abbiamo organizzato tre incontri, su temi legati all’identità e alla percezione del tempo. Abbiamo scelto ogni volta come guida alcuni albi illustrati, che grazie alla forza delle immagini e al linguaggio poetico arrivano direttamente all’anima, dando forme nuove a pensieri e riflessioni. Contrariamente a quanto la gente pensa non sono solo per bambini».

Momenti di serenità

I servizi per i disabili nell’estate post-covid sono gli ultimi a ripartire, vincolati da regole, limiti, problematiche legate alla sicurezza: «Nessuno però ha considerato che i nostri figli più di altri hanno bisogno di incontri e attività, perché non hanno una socialità spontanea, e l’isolamento ha portato blocchi e regressioni, perdendo miglioramenti ottenuti a prezzo di tanti sacrifici».

Laura ha potuto vivere con serenità questi momenti grazie alla vicinanza della struttura che accoglie Ibrahim, che ha sempre mantenuto aperta la possibilità di farlo tornare in caso di necessità. «Alla fine – dice – ce l’ho fatta e mi sono riappropriata di aspetti che non avevo potuto vivere. Tanti sorrisi e passeggiate da soli, liberi per una volta da giudizi e sguardi insistenti. Arrivavamo dai nonni, facevamo merenda in giardino e loro ci guardavano dalle finestre. Ho scattato la foto delle nostre mani unite e mi ha accompagnato per questo tempo: è un contatto per lui difficile ed è arrivato come un dono. Questo periodo ci ha dato tanto, e alla fine ho ritrovato il coraggio di lasciarlo rientrare in comunità, per il suo bene: ora ha 18 anni e stiamo curando il passaggio per una struttura per adulti. Ai genitori di persone con disabilità il tempo porta nuove domande, l’idea che comunque ci dovrà essere qualcuno a cui affidare i figli quando loro non ci saranno più, io ho dovuto sperimentarlo in anticipo. La lezione di questa esperienza per me è stata grande. Ho dovuto mettere da parte le aspettative e i desideri che avevo per mio figlio, anche i più semplici: che imparasse a parlare, a disegnare, a stare seduto. Ho imparato che le fragilità devono essere riconosciute e non nascoste. Lo racconto anche ai miei alunni, perché penso che sia un messaggio fondamentale per le nuove generazioni e spero che ne facciano tesoro. Ho cambiato il mio modo di vivere e di percepirmi grazie a Ibrahim, per me lui è un maestro. Molti educatori mi dicono che è un privilegio stargli vicino. È come se lui, con la sua purezza, fosse capace di riportare le persone all’essenza dell’essere umano».
Come accade nel celebre albo illustrato di Crockett Johnson «Harold e la matita viola» (Carmelozampa), molto caro a Laura, «non bisogna mai dimenticare che ognuno di noi ha il potere di immaginare e di realizzare un mondo migliore».

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