Tamponi rapidi poco affidabili? «Falso negativo in un caso su due»

Uno studio pubblicato su «Future virology» ha certificato l’alta percentuale di errore. Il professor Broccolo: «Quando un soggetto si infetta, la positività si rileva col test 48 ore dopo».

Sono uno degli strumenti più utilizzati dall’inizio della pandemia per arginare la circolazione del Covid e fotografarne la contagiosità, ma con il trascorrere dei mesi sembra siano diventati l’anello debole con una percentuale di errori nella diagnosi dei casi positivi al livello di guardia: i test antigenici rapidi in un caso su due producono come risultato un falso negativo, rischiando così di diventare un volano di migliaia di focolai, e c’è chi ora vorrebbe eliminarli tra i criteri per il rilascio del Green pass, da riservare invece solo a vaccinati e guariti.

Un recente studio, condotto su 332 pazienti dal Centro ricerche Altamedica di Roma e pubblicato sulla rivista «Future virology», ha certificato che i test rapidi forniscono un alto tasso di falsi negativi, determinando nei soggetti sottoposti al test un falso senso di sicurezza che induce ad allentare il rispetto delle misure di prevenzione come il mantenimento della distanza e l’utilizzo delle mascherine.

Il virologo Francesco Broccolo, docente di Microbiologia all’Università Bicocca di Milano, conferma e ammonisce: «I test antigenici rapidi hanno una sensibilità estremamente bassa. Abbiamo diversi gradi di criticità con il 50% di falsi negativi rilevati con i test rapidi e il motivo è semplice: quando un soggetto si infetta, l’infezione si rileva con il test dopo 48 ore. Per questo non conviene fare il test subito dopo avere avuto un contatto. Quando il virus inizia a replicarsi il test molecolare offre una fotografia dettagliata, l’antigenico no. Idealmente il test rapido andrebbe fatto tutti i giorni perché, se mi infetto oggi, per 48 ore non si potrà vedere l’infezione con nessun test».

Seconda criticità: «Il test rapido fornisce un’immagine sgranata – sottolinea Broccolo –. Riesce infatti a visionare il virus solo se la carica virale è di almeno 1 milione di copie per millilitro di fluido biologico prelevato con il tampone. Pertanto con le attuali regole chi è vaccinato non viene distinto da chi ha fatto il test rapido, che può risultare anche un falso negativo, ed entrambe le categorie si espongono agli stessi eventi e occasioni di incontro, ma i non vaccinati hanno un maggior rischio di ammalarsi». Le considerazioni di Broccolo sono corroborate dai dati dello studio pubblicato su «Future virology», che ha confrontato i risultati del test rapido dell’antigene del virus con quelli del tampone molecolare. Sui 332 casi selezionati per il confronto, 249 campioni sono risultati positivi al tampone molecolare e 83 negativi. Tra i 249 campioni positivi, solo 151 sono stati rilevati dal test rapido antigenico, con una sensibilità complessiva del 61%. Nei 98 casi rimanenti il test antigenico è risultato negativo. Numeri che alimentano le preoccupazioni degli esperti e di chi vorrebbe limitare drasticamente l’utilizzo dei test rapidi a un primo controllo di massa, quando non è opportuno attendere le 12 o 24 ore di un test molecolare, ma sussiste un problema di non poco conto: eliminando i test antigenici, l’intero sistema diagnostico italiano basato sui tamponi, con quasi 700mila test giornalieri, rischierebbe il collasso (dei 3,7 milioni di tamponi effettuati nell’ultima settimana, 2,7 milioni sono rapidi, un milione i molecolari, con tasso di positività del 6,04% rilevato con i tamponi molecolari e appena dello 0,25% con gli antigenici). E si pone anche la questione dei costi: 15 euro per un test rapido e non meno di 50 euro per il molecolare. Broccolo sottolinea tuttavia anche un altro aspetto: «Il virus ha bisogno di tempo per replicarsi, ma anche con il tampone molecolare non si hanno certezze assolute, nonostante la grande sensibilità. Le 72 ore di validità del test molecolare sono teoriche perché l’infezione potrebbe essere contratta dopo poche ore dal test».

Problemi da valutare alla luce dei vari indicatori di allarme: crescita costante dei nuovi positivi, dei ricoveri nei reparti ordinari e nelle Terapie intensive e la nuova variante Delta plus che si staglia all’orizzonte. Questa mutazione ulteriore del virus, già diffusa in Inghilterra, non sarebbe più letale ma più contagiosa rispetto a quella dominante, come ha rimarcato anche Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza, che ha paventato un indice di contagiosità di questa variante superiore al 15%, con livelli equiparabili a quelli della varicella. Concetto ribadito anche da Sergio Abrignani, immunologo dell’Università Statale di Milano e componente del Comitato tecnico-scientifico, che ha evidenziato come i test rapidi, assai utilizzati per ottenere il certificato verde, siano poco sensibili (60% di sensibilità contro il 99% dei molecolari).

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