Gli stipendi italiani tra i più bassi in Europa: al top Svizzera, Usa e Regno Unito

Il report sulle retribuzioni: gli italiani sono pagati meno di gran parte dei colleghi europei. Con l’internazionalizzazione delle imprese crescono le assunzioni dirette di personale all’estero.

I lavoratori italiani sono pagati meno dei colleghi europei (e non solo). Lo confermano i numeri dell’ultima Mappa delle retribuzioni messa a punto dal Centro Studi di Confindustria Bergamo insieme ad altre 11 associazioni territoriali che coprono 18 province di Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana.

Sono quattro i profili presi in considerazione dalla ricerca, condotta su oltre 3.000 imprese con oltre 420 mila dipendenti, di cui 143 bergamasche con circa 23 mila addetti. Partendo dal gradino più alto, un senior manager in Italia guadagna in media 128 mila euro lordi all’anno, contro un salario da 357 mila euro in Svizzera, 179 mila nel Regno Unito, 150 mila in Germania, 144 mila in Olanda e 130 mila in Francia. Alle spalle dell’Italia si posizionano soltanto la penisola iberica e l’Europa dell’Est. Fuori dal Vecchio Continente, invece, negli Stati Uniti un senior manager è pagato 185 mila euro e in Giappone 150 mila, Anche con i manager l’Italia è meno generosa: da noi vengono pagati in media poco più di 65 mila euro, meno di Francia (67 mila euro), Germania (86 mila) e Regno Unito (89 mila), per non parlare della Svizzera, che ai manager offre un salario di quasi 169.000 euro all’anno, ma anche di Stati Uniti (98 mila) e Giappone (89 mila).

La situazione non cambia granché per gli altri due profili. A un professionista esperto (senior specialist) l’Italia offre salari allineati a quelli francesi (rispettivamente 39 mila e 37 mila euro lordi all’anno), ma inferiori a quelli tedeschi e inglesi (circa 53 mila). Pagano in assoluto di più Svizzera (78 mila), Stati Uniti (57 mila) e Regno Unito (oltre 50 mila), mentre agli ultimi posti si posizionano Serbia, Lituania e Turchia.

Lo stipendio medio di uno operaio specializzato (specialist/operative), invece, in Italia è di quasi 27 mila euro, poco più che in Francia (24 mila), ma molto meno del Regno Unito (37 mila) e della Germania (38 mila). Anche per questo profilo i salari in assoluto migliori sono quelli svizzeri (47 mila), i peggiori quelli turchi (meno di 12 mila).

Non sono messi meglio, però, neppure i datori di lavoro di casa nostra. Fra i Paesi industrializzati, l’Italia impone alle imprese pesanti oneri per contributi e accantonamenti: ogni 100 euro di salario lordo erogati, l’azienda ne paga infatti almeno altri 40, contro i 19 della Germania e gli 8 degli Stati Uniti.

«Tra gli Stati esaminati - sottolinea Ivan Sinis del Servizio economia del lavoro dell’Unione Industriale di Torino - solo la Francia presenta un cuneo fiscale analogo a quello italiano. In Germania, invece, a fronte di un costo del lavoro superiore, il rapporto è più equilibrato grazie alla combinazione di carichi contributivi equamente ripartiti tra azienda e lavoratore e trattenute fiscali sul salario in linea con le nostre».

Con la crescita dell’internazionalizzazione è aumentato il ricorso alla localizzazione, cioè l’assunzione di personale direttamente all’estero con un contratto normato dal Paese sede di lavoro, «come pure si sta diffondendo il lavoro internazionale da remoto, anche a seguito della pandemia, nella metà dei casi per ragioni personali del lavoratore, ma anche per politiche aziendali», spiega Martina De Santis di Eca Italia, società di consulenza per la gestione del personale espatriato che ha collaborato alla Mappa delle retribuzioni di Confindustria.

Ecco perché il confronto sulle retribuzioni gioca un ruolo decisivo nella partita della competitività. La sfida è contenere i costi riuscendo ad attrarre e conservare talenti. Non è un caso che negli ultimi due anni il 65% del campione di imprese preso in esame abbia rivisto le proprie politiche di global mobility. «Nel complesso - rimarca De Santis - si è registrato un forte aumento delle aziende che hanno formalizzato una politica retributiva ad hoc per la gestione del personale all’estero, definendo linee guida in base a uno specifico Paese o regione geografica». È evidente, infatti, che localizzare un dipendente in Cina o negli Emirati Arabi Uniti sia molto diverso dal localizzare la stessa persona in Francia o Germania.

Nel 75% dei casi la retribuzione pagata nel Paese d’origine è la base di partenza per il calcolo del trattamento economico d’espatrio, ma c’è anche un 25% di imprese che preferisce prendere come riferimento i livelli salariali del Paese di destinazione del dipendente. “Il tipo di pacchetto retributivo - continua De Santis - è un importante fattore di attrazione per il dipendente, che, in funzione della relativa convenienza, potrà essere più o meno interessato dalla proposta di assegnazione all’estero, ma è anche una voce di costo per l’azienda, che può essere ottimizzata attraverso un giusto mix tra componenti monetarie e altri benefit, cogliendo le opportunità offerte dai sistemi fiscali vigenti nei Paesi di assegnazione».

© RIPRODUZIONE RISERVATA