5 Stelle, Conte incoronato. Ma il difficile inizia adesso, tra ambiguità e realtà

Signor nessuno, anzi miracolato s’era detto. In tre anni Giuseppe Conte, forte solo della professione di giurista e di un consenso personale guadagnato, s’è ritrovato due volte premier nel periodo più difficile della storia repubblicana e ora alla guida dei Cinquestelle. Personalità fuori dagli schemi, ibrida e non classificabile sino in fondo, l’avvocato pugliese assume la leadership di una strana creatura politica, nata dal fallimento altrui e diventata essa stessa un fallimento, come ha scritto con indovinata sintesi il politologo Giovanni Orsina. Se quando era a Palazzo Chigi poteva ritenersi, rispetto al grillismo imperante, «uno con loro ma non di loro», oggi lo spartito si completa con più chiarezza nella gerarchia interna e nelle scelte politiche. Il noviziato politico vero e proprio di Conte dice di un M5S in via di trasformazione, da movimento a partito, non priva di contraddizioni e di stop and go: sulla riforma della giustizia ha provato a mettersi di traverso, ma poi ha retto ingoiando il rospo, facendo buon viso a cattivo gioco, superando comunque il test dell’esordio.

È un uomo in bilico su una corda tesa e il difficile inizia ora. Costretto a muoversi sul crinale tra governo, oltre al recupero di un rapporto personale con Draghi dopo i giorni freddi del risentimento, e i residui del ribellismo: dal guevarismo alla Di Battista ai veleni di Grillo.

Non tutti i conti interni tornano e, soprattutto, non paiono saldati. Restano nei Cinquestelle margini ambigui e imprevedibili, e soluzioni dall’incerto approdo. L’ex premier, che non è un incendiario, può essere un’opportunità per il Movimento, in transito dall’adolescenza antisistema alla maturità: meno grillini più contiani? Dovrà ritagliarsi un ruolo di leadership nel centrosinistra, dove i rapporti con Letta sono buoni, un’area che comunque dovrà precisare lo spazio delle alleanze. Dovrà marcare il terreno sui temi identitari, dal profilo ecologista alla difesa del Reddito di cittadinanza: su questo strumento da riformare, bandiera dei Cinquestelle, non ha usato fin qui l’artiglieria. L’esperienza dei 6 mesi del governo Draghi insegna che le barricate si annunciano e poi si smontano, forse più per costrizione che per convinzione, come sa meglio di tutti Salvini specie dopo il varo del green pass. Pure il neo leader del 5MS è cosciente di una soglia di sostenibilità insuperabile, che non può infilzare il governo, dove Di Maio presidia l’assetto. Anche sulla giustizia l’aria non tira più dalla parte del giustizialismo e l’anticipo s’era avuto con il pentimento del ministro degli Esteri.

La linea Conte, se regge, può tendere a stabilizzare il sistema, o perlomeno uno dei lati più difficili da ricondurre alla disciplina della governabilità sottoscritta. Il governo del presidente e il metodo Draghi, vissuti inizialmente come una censura della politica, costringono i partiti ad assumersi le loro responsabilità. Il populismo non sarà finito, tuttavia potrebbe essere ai saldi fine stagione. Chi più chi meno per rendersi credibile deve achiviare il proprio passato, rientrando dalla fuga dal mondo reale. Salvini è prigioniero della trappola che s’è costruito da solo: ha tirato la volata, suo malgrado, a Giorgia Meloni ed è sotto la pressione dell’ala governista del partito (Giorgetti, Zaia, Fedriga).

L’allegra brigata di Grillo s’è ridotta a poco meno della metà dei consensi ricevuti nella stagione del «Vaffa» e la sua forza d’urto, al di là dei numeri in Parlamento, appare più virtuale che reale. La fine della ricreazione imposta dal Covid si sta rivelando un vaccino necessario per riconciliare i problematici incursori di ieri con la realtà.

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