Al Governo baruffa,
pace e ancora baruffa

Ormai i partiti del governo giallo-verde ci hanno abituati a questo andamento da clima tropicale: all’acquazzone segue una breve tregua e poi torna a piovere. Tutto violentissimo e rapido quanto una diretta Facebook. È successo di nuovo ieri. Non si era ancora spenta l’eco delle parole sprezzanti usate da questo contro quello nella giornata del discorso di Conte al Senato sul caso Mosca (tanto per dirne una: «A me di quel che dice Conte importa meno di zero» firmato Salvini) che nel cielo di Roma è tornato il sole, con un incontro «di pacificazione» almeno tra i due vicepremier, dal momento che Conte medesimo si è guardato bene dal parteciparvi preferendo una colazione al sushi dietro Palazzo Chigi.

Un’oretta di colloquio, giusto il tempo per consentire ai giornalisti arzigogolati ragionamenti sul «pericolo elezioni che si allontana», qualche frase di circostanza ai microfoni delle televisioni per dire che «si andrà avanti per quattro anni», e poi subito sono tornati i nuvoloni carichi di pioggia. Infatti, poco dopo l’incontro dei due alleati-avversari, sempre a palazzo Chigi va in scena l’avvio ufficiale - definito così dal presidente del Consiglio - della manovra economica siglata da Conte, Di Maio e il ministro Tria: un incontro del governo con sindacati e imprenditori che è servito a oscurare la riunione al Viminale di Salvini e dei suoi con le parti sociali. Non a caso accanto a Conte, Tria e Di Maio non c’era neanche un sottosegretario leghista. E non solo: dalla riunione sono usciti tanti «vedremo» a riguardo delle bellicose intenzioni della Lega: vedremo sulla flat tax, vedremo sul taglio agli scaglioni dell’Irpef, vedremo su una manovra da fare a tambur battente, entro agosto. Niente di tutto questo: la musica la vogliono suonare Conte e Tria, Di Maio si accoda per non far vedere quanto gli sta costando il sì del governo all’odiatissima Tav.

E naturalmente Salvini si infuria, spara bordate contro chi vuol decidere senza di lui e senza la Lega, e manda avanti il presidente della Commissione Bilancio Borghi a sparare alzo zero contro Tria, colpevole di voler «stabilire lui» quale sarà il deficit previsto dalla manovra 2020 (il ministro del Tesoro lo vuole contenuto, anche per non incorrere per la terza volta nei fulmini della Commissione europea, ora assai meno ben disposta di prima verso l’Italia sovranista-populista). In tutto ciò la Camera dà il via libera al decreto sicurezza bis firmato dal ministro dell’Interno ma ben diciassette deputati grillini si rifiutano di votare e il presidente della Camera Fico esce dall’aula prima del voto, tanto per dire: «Io non c’entro con questa roba». Insomma, questo è l’andamento: baruffa-pace-baruffa, con un presidente del Consiglio convinto di potersi ritagliare – in questo zigzagare dei partiti – un ruolo istituzionale e politico e non più quello di semplice amministratore di condominio. Non è sfuggito quel passaggio del suo discorso al Senato in cui faceva capire che non accetterebbe la caduta del governo senza un passaggio parlamentare – dove come è noto tutto può accadere.

E qui torna la solita domanda: cosa farebbe Mattarella in caso di crisi? Concederebbe le elezioni subito o metterebbe in piedi una soluzione transitoria («tecnica» prevede Di Maio)? Lui, Mattarella, ieri in un discorso ai giornalisti parlamentari, ha tagliato corto con tutte le ipotesi e le chiacchiere sul suo atteggiamento. «Il presidente è un arbitro, punto e basta» ha detto ricordando semmai che devono essere i partiti a trovare gli accordi politici e programmatici tra loro. Cosa abbastanza complicata se, come si vede, l’autonomia regionale va avanti a passettini minuscoli mentre di manovre economiche rischiamo di vederne ben due.

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