Antagonismo e istituzioni. Così il M5S si sbriciola

La linea dell’Italia sulla guerra in Ucraina non cambia: la nostra rispettabilità internazionale è salva. Siamo con l’Europa, la Nato, l’alleanza, vogliamo la pace e spingiamo per i negoziati con le sanzioni all’aggressore russo e aiutiamo concretamente l’aggredito ucraino. Tutto come dall’inizio, sancito dal decreto «Ucraina».

E tuttavia questo non vuol dire che il governo Draghi, che questa linea incarna e realizza, sia oggi saldo in sella. Come potrebbe, di fronte allo sgretolamento di quello che, fino a ieri e già da domani non più, era il partito più grande del Parlamento eletto nel 2018 e dunque il perno della maggioranza governativa, quello che più di altri dovrebbe sostenere l’Esecutivo?

Nelle ore in cui scriviamo il Movimento Cinque Stelle si sta dividendo in due: da una parte Luigi Di Maio con i suoi non pochi fedeli, dall’altra Giuseppe Conte con la gran parte della truppa. Ma chiunque conosca la politica sa che questo è solo l’avvio dello sbriciolamento di un partito-movimento che ha perso la sua ragion d’essere – l’antagonismo a qualunque classe dirigente percepita come «casta» – man mano che diventava esso stesso «classe dirigente», che si scontrava con la fatica e le contraddizioni insite nell’azione di governo. Caso plateale, proprio l’(apparente) ragione dello scontro di queste settimane e di questi giorni tra Di Maio e Conte: la politica estera. Il M5S ha ondeggiato tra le simpatie per Putin e per Maduro, ha cercato in Europa alleanze con la destra e la sinistra, con i favorevoli alla Brexit e i suoi avversari, con i gilet gialli e con i populisti di ogni risma, e poi si è trovato a governare sul serio, a capire cos’è davvero la politica estera, cosa sono le alleanze internazionali, i vincoli esterni, la durezza della difesa dell’interesse nazionale in momenti drammatici come la pandemia prima e la guerra ora. Un partito così prima o poi fatalmente si disgrega: una parte matura dentro il «Palazzo», un’altra non si rassegna agli slogan di piazza. Di Maio incarna il grillino che si «istituzionalizza», Di Battista quello che resta antagonista, e Conte è colui che prova a costruirsi una statura politica sulle insufficienze dell’uno e dell’altro mostrando però a sua volta la debolezza di una visione politica legata al giorno per giorno, alla dichiarazione buona per qualche ora, al mediocre compromesso lessicale.

Esattamente quello che ha chiesto e ottenuto per poter votare la risoluzione con cui il Senato ieri ha approvato le dichiarazioni in Parlamento di Mario Draghi alla vigilia del Consiglio europeo. Si è chiesta, con quella risoluzione di compromesso, «un maggior coinvolgimento del Parlamento» nella guerra ucraina: e che forse il decreto n. 14 che autorizzava l’invio delle armi alla resistenza di Kiev non è stato forse votato alla quasi unanimità, da pressoché tutti i partiti, compresa l’opposizione? La verità è che l’inconsistenza politica alla fine ha svelato la rivalità tra capi: Di Maio e Conte non potevano stare insieme a capotavola, e dunque ognuno adesso va per conto proprio. Il M5S si divide in due in attesa di spaccarsi in tre, in quattro, fino alla sanzione elettorale annunciata sin troppe volte dopo il 2018 dagli appuntamenti amministrativi.

Il problema non è più, però, la sorte dei grillini: ciò che interessa è la saldezza di un governo chiamato, da qui alle elezioni del 2023, ad affrontare un’emergenza assolutamente eccezionale dove la minaccia bellica si coniuga con la crisi economica all’indomani della pandemia proprio quando ambiziosi programmi di ripresa sostenibile erano stati varati dalla Commissione europea. Per governare una barca su un mare tanto agitato e pericoloso serve un comandante capace, e Draghi lo è certamente. Ma anche un bravo capitano può poco se i suoi ufficiali litigano e i marinai si azzuffano. È questo il vero pericolo per l’Italia, qualunque sia la sorte personale e politica di Di Maio, Conte, Fico, Grillo e dei loro sodali.

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