Antipolitica con il bonus: ma non è
la sua fine anche senza idee sul futuro

È il momento lungamente atteso del suo rilancio o il suo è il rimbalzo del gatto morto? L’antipolitica ha trovato nello scandalo dei furbetti del bonus anti-Covid la spinta per un suo ritorno di fiamma o è stata ridotta al ruolo di arma di distrazione di massa? Il can can mediatico, scatenatosi sugli onorevoli colpevoli di comportamenti disonorevoli, va salutato come il tempestivo, insperato controllo dell’Inps sul buon utilizzo del denaro pubblico o più banalmente come l’assist di un «boiardo di Stato» (il presidente Tridico, che ieri ha detto che l’istituto ha solo seguito la legge) ai suoi sponsor politici per lanciare la campagna referendaria sul taglio dei parlamentari, storico cavallo di battaglia dei Cinquestelle?

Se ci si limita a guardare allo stato di salute dei partiti che hanno fatto dell’antipolitica il loro credo - Lega e M5S -, si dovrebbe considerare lo scandalo del bonus di 600 euro (qualcuno sospetta costruito a tavolino), inopportunamente chiesti da cinque onorevoli e alla fine incassati da tre, un’occasione insperata per risollevare le sorti dei grillini, non proprio prospere. Poco conta che uno dei tre imputati dell’appropriazione - inopportuna, se non illecita - del bonus sia proprio uno di loro, uno di quegli anonimi «cittadini» mandati in parlamento espressamente per vegliare sull’onestà degli eletti. Il suo pronto deferimento ai probiviri, decretato dal capo «supplente» Vito Crimi, dovrebbe dimostrare l’incrollabile severità del Movimento nel sanzionare i reprobi.

Uno scandalo, però, non fa primavera. Non può risollevare sorti alquanto compromesse. Sono troppi gli atti incongrui, le plateali contraddizioni in cui sono caduti i campioni dell’antipolitica, perché le loro fortune possano essere risollevate al primo riaffiorare di un comportamento censurabile della casta. A parte il paradosso, che sono proprio parlamentari «antipolitici» (due leghisti e un grillino) a esser la pietra dello scandalo, non sembra che sia questo il momento d’oro per rilanciare le sorti dell’antipolitica. Salvini si è impantanato nel suo sovranismo. Di Maio è prigioniero di un’identità scissa. Un giorno indossa il doppiopetto da (aspirante) aggregatore del polo moderato, il giorno dopo torna a rivestire i panni del fustigatore della casta.

Il probabile affievolirsi della stella dell’antipolitica nei partiti che ne sono stati i maggiori beneficiari non deve far pensare a un tramonto definitivo dell’astro che ha illuminato la politica italiana da almeno un trentennio. L’antipolitica poggia su basi troppo solide per scomparire. Venuta meno con la caduta del muro di Berlino la storica contrapposizione capitalismo-comunismo, è stata l’antipolitica a conquistare il ruolo di polo dialettico dell’ordine costituito, occupato precedentemente dalla sinistra: alternativa a una società soggiogata dall’economia di mercato, esposta alle distorsioni generate dal libero commercio mondiale, sottoposta al predominio delle organizzazioni internazionali, alla «politica dell’Abc» (agencies, boards, commissions). È questo l’habitat ideale per l’antipolitica.

Se è vero che le manca un’idea compiuta di futuro, in compenso può contare sulla capacità di dar voce alla protesta. È poco, ma è quanto basta per farla prosperare e perché la democrazia parlamentare, già di per sé in crisi, sia tenuta in scacco, costretta a combattere un avversario che se ne sta fuori del campo di gioco e che può far leva sulle sue manchevolezze e le sue inadeguatezze.

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