Appoggio all’Ucraina, malumore profondo
in Lega e Cinque Stelle

Il Presidente Mattarella non ha remore nel ricordare che l’impegno dell’Italia a favore degli ucraini consiste anche «nel sostegno concreto a chi resiste a difesa della propria terra contro un’invasione militare», ossia mandando nostre armi per ricacciare indietro i russi. Mattarella suggella la posizione che il Parlamento ha preso alla quasi unanimità ormai diverso tempo fa su iniziativa del governo.

Abbiamo deciso che gli ucraini non vanno aiutati solo con le buone parole ma anche con qualcosa di più concreto ma, nonostante questa apparente unanimità, nella maggioranza c’è un profondo malumore in almeno due partiti: la Lega e il M5S. I partiti populisti e sovranisti hanno avuto una lunga liaison con la Russia di Putin, addirittura Salvini ha firmato un accordo scritto di collaborazione con il partito putiniano e ha dovuto affrontare polemiche e anche iniziative giudiziarie per i rapporti tra persone a lui vicine e circoli affaristici moscoviti. Quanto al M5S non è mai stata nascosta la simpatia per lo zar russo anche in momenti pubblici o congressi di partito russi in cui un attuale sottosegretario agli Esteri alzava la voce affermando che «l’Ucraina non esiste» e che al governo di Kiev «ci sono i fascisti e i nazisti».

Ora naturalmente con la guerra l’aria è cambiata ma i mal di pancia restano: Draghi li ha ristretti nel perimetro della fedeltà atlantica ed europea ma non ha certo potuto guarirli. La riprova: le assenze (anche di Conte) durante il discorso di Zelensky a Montecitorio e, adesso, il nuovo voto sull’aumento delle spese militari per arrivare alla quota del 2 per cento del Pil. Si tratta di votare un ordine del giorno al Senato (simile a quello già passato alla Camera) presentato da Fratelli d’Italia nell’ambito della discussione sul decreto Ucraina, quello in cui – appunto – abbiamo deciso di mandare le armi anche noi come tutti gli alleati europei e americani. L’opposizione fa il suo mestiere, naturalmente, e con la sua iniziativa prova a scuotere la maggioranza mettendo i partiti uno contro l’altro.

Si badi che l’aumento al 2 per cento del Pil è un impegno che l’Italia ha assunto nel 2014 e che è stato ribadito in sede Nato da tutti i governi che si sono succeduti, compresi dunque il Conte I a trazione destra e il Conte II a trazione sinistra. Conte, nella sua terza versione di sostenitore di Draghi, nel frattempo ha cambiato idea: non vuole più l’aumento che ha sostenuto da presidente del Consiglio. E promette ai militanti che lo hanno ri-votato in queste ore come loro leader (ricorderete le querelle giudiziarie sulla sua prima elezione) che il Movimento si farà rispettare nel suo «no alle armi» e che pretende che la sua voce di partito di maggioranza relativa (nelle elezioni del 2018) sia ascoltata da Draghi. Il presidente del Consiglio non sembra preoccuparsi troppo di questo vento che si è alzato dalle parti dei grillini.

Intanto, sul decreto è pronto a mettere la fiducia, ma sull’ordine del giorno di Fratelli d’Italia troverà il modo di convincere Conte che incontrerà oggi, cioè all’indomani dell’avvenuta ri-elezione del medesimo alla carica di leader (per la quale era l’unico candidato): a Palazzo Chigi si troveranno le parole giuste.

Chi gongola in questo passaggio è soprattutto Giorgia Meloni che ha trovato un’altra occasione per presentarsi all’opinione pubblica e ai nostri alleati internazionali come un partito coerente con le proprie posizioni e con quella dell’Europa, della Nato e degli americani. Non sarà un caso che Fratelli d’Italia continui a crescere nei sondaggi giocandosi con il Pd il posto di primo partito italiano e lasciando la Lega sotto di circa sei punti percentuali.

© RIPRODUZIONE RISERVATA