Boomerang Trump, se l’Italia è in dubbio

ITALIA. «Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria», questo l’enunciato del terzo principio della dinamica di Newton.

Sembra che questo principio valga anche per la politica. Nel momento stesso in cui con l’elezione di Trump a presidente degli Usa, la maggiore potenza mondiale, la pressione del populismo ha raggiunto l’acme, si è sviluppata un’azione uguale e contraria che ha determinato un improvviso, sorprendente ripiegamento del populismo. Non si spiega altrimenti il recupero spettacolare che il candidato del partito liberale, l’ex governatore della Banca d’Inghilterra e del Canada Mark Carney, ha registrato nelle elezioni da poco conclusesi in Canada. Dato perdente con un distacco di più di dieci punti dal concorrente trumpiano, Pierre Poilievre, il candidato liberale ha preso il volo dopo che il prepotente tycoon di Mar-a-lago ha minacciato di inglobare la nazione confinante negli Stati Uniti.

Le forze contrarie al populismo risalgono

Non diversamente, un po’ in tutto l’Occidente, risalgono di slancio in popolarità le forze che si oppongono al populismo di casa loro. Così sta avvenendo in Australia. Anche qui il premier laburista Antony Albanese stava precipitando nei sondaggi, quando all’improvviso ha ripreso a risalire con forza, anche in questo caso per merito di Trump e dei suoi dazi. Persino il premier laburista inglese Keir Starmer, affondato nei sondaggi dopo la sua elezione, ha trovato nell’opposizione alla politica protezionista americana la leva per conquistare un profilo di leader europeo. Che dire poi dell’acciaccata Cdu di Friedrich Merz si è rialzata adottando una linea anti Trump?

L’Italia è l’unico paese in cui nulla si muove

L’unico Paese in cui sembra che nulla si muova è il nostro. Da noi la destra della premier Meloni non sembra subire gravi danni dall’amicizia con l’imbarazzante amico americano. Parimenti, sul versante opposto, la sinistra d’opposizione non pare avvantaggiarsi del contraccolpo anti-populista in atto in tutto l’Occidente democratico. È vero che da noi destra e sinistra si limitano a mutare i loro rapporti di forza interni, ma mantengono intatto il loro peso elettorale. La linea di confine che separa centrodestra e centrosinistra, da trent’anni a questa parte, è risultata infatti invalicabile.

Se un polo prevale nelle urne sull’altro, è solo perché riesce a mobilitare i suoi elettori, non perché abbia la forza di spostare dalla sua parte gli elettori della parte avversaria. Ma forse sul mancato vantaggio che gli anti-trumpiani riescono ad accaparrasi incide un’altra ragione, e cioè che destra e sinistra nostrane mostrano una diversa capacità di catturare nuovi settori dell’opinione pubblica oltre il loro blocco elettorale tradizionale. Meloni è vero che resta amica di Trump, ma sa anche accreditarsi come amica di Ursula von der Leyen, così come, pur essendo capofila dei Conservatori europei, riesce a intrecciare buoni rapporti con i Popolari tedeschi di Manfred Weber. In altre parole, sta cercando di scrollarsi di dosso l’aura di campione del populismo trumpiano e ne guadagna in credibilità.

La Schein fa blocco a sinistra

Diversamente, Schlein si accontenta di fare blocco a sinistra. Trascura di coltivare la prateria che si stende alla sua destra. Agita problemi di sinistra come il salario minimo. Si stringe a Landini. Sostiene l’abrogazione del Jobs act, voluto dal suo Pd (all’epoca di Renzi), con buona pace dei discreti risultati da esso prodotti sul fronte dell’occupazione. Si mobilita in difesa della fornaia di Ascoli Piceno, che produce «pane resistenzialista», buono perché antifascista, e non si cura con altrettanta determinazione dell’Italia produttiva che chiede ben altro, di essere cioè sostenuta nel suo sforzo di resistenza all’attacco protezionista di Trump. Eppure è su questo fronte che si gioca la partita delle prossime politiche.

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