Bruxelles, Italia
rimasta da sola

Meglio allacciarsi le cinture di sicurezza, perché si viaggia a fari spenti nella notte. Draghi ha affondato la stramba idea dei minibot, l’equivalente di una moneta parallela e come tale in grado di prefigurare l’uscita mascherata dall’euro. La sortita è stata sostenuta da Salvini e dal pur cauto Giorgetti, ma bocciata da Tria, l’impeccabile «signor no». Al quartier generale dell’Europa continuano a chiedersi: chi governa a Roma? Il ribaldo Salvini, l’incerottato da ferite elettorali Di Maio ridotto a junior partner e costretto a prendersi il rospo salviniano, il razionale e necessario Tria o il premier Conte, il redivivo del penultimatum ai due soci di maggioranza?

Mentre ieri, dopo i pensionati, sono scesi in piazza i lavoratori pubblici e il capo grillino, in quanto ministro del Lavoro e dello Sviluppo, è accusato di distrazione rispetto al montare delle crisi aziendali, i Giovani industriali dicono di aver perso la pazienza, ma non sanno a chi rivolgersi con precisione. Più o meno quel che già hanno reso noto Confindustria Lombardia e Veneto. Chiude per ora il libro delle doglianze la potente Confcommercio di Sangalli che ha bocciato l’operato del governo.

Schiaffi, soprattutto quest’ultimo, che, per il blocco sociale del consenso leghista, contano e pesano: non possono essere ignorati. Con un governo sotto la tenda d’ossigeno, dato per spacciato e poi in via di presunta resurrezione tramite prossimo rimpasto, l’Italia affronta il passaggio decisivo sulla tenuta dei conti pubblici: il campo di battaglia è questo, il resto sono effetti collaterali, per un Paese che detiene un debito pubblico da record e il primato di una bassa reputazione politica. La lettera dell’Ue con cui anticipa l’apertura di una procedura d’infrazione per eccesso di debito passerà al vaglio dei singoli Paesi e molto dipende dal tipo di risposta del nostro governo: se rispettare i paletti con manovra di rientro o rilanciare la sfida, che si preannuncia velleitaria. Se ha margini il tandem Conte-Tria per tamponare la falla populista, o se si insiste nelle provocazioni del retropensiero salviniano di strappare con la pur imperfetta moneta unica.

Un anno di «governo del popolo» ha allestito le prove generali del dissesto mandando fuori controllo il secondo debito europeo, come ci richiama la Commissione di Bruxelles: sforare il deficit, stabilizzare i conti e gestire le tasse in modo accorto non si tengono. Il successo alle elezioni europee ha sovraesposto Salvini su tutto e ora gli ritorna indietro: nel passare all’incasso s’è dovuto prendere anche la responsabilità di dare risposte nell’interesse del Paese e del suo mondo di riferimento, quello dei produttori specie del Nord, che avrebbero solo da perdere da una crisi finanziaria dagli esiti imprevedibili. L’uscita strategica della flat tax, la bandiera della riscossa, riposa nel cassetto per insostenibilità finanziaria. Tutto dipende da come la si costruisce, ma se l’aliquota è al 15% – come ha ricordato l’ex ministro Padoan – diventa una tassa regressiva che costa dai 15 ai 40 miliardi: il solo modo per finanziare la misura e allo stesso tempo non far scattare l’aumento dell’Iva è sforare il deficit con relativo aumento del debito. Cartellino rosso. Chi elogia il realismo del ministro dell’Interno, nel rapporto con la decrescita grillina, sorvola su una circostanza essenziale: non esistono le premesse per realizzare un programma avventurista al di fuori delle regole Ue. Tanto più che la Lega, e con lei l’Italia, balla da sola a Bruxelles. Salvini ha vinto in Italia, ma ha perso in Europa: il vaffa, una volta arginato, s’è rivelato un capitale improduttivo che non intende riconciliarsi con la realtà. La brigata nazionalista non fa massa critica e non è riuscita l’alleanza con la Lega: ognuno gioca per sé. La nuova Commissione europea non sarà in discontinuità con quella uscente e l’influenza degli emergenti liberali del Nord sarà ancora più rigorosa quanto a disciplina finanziaria. Ci sarà modo di rimpiangere la Merkel. In questa solitudine Salvini, che pure si tiene lontano dall’azzardo estremo, s’intesta la titolarità di una partita selettiva e senza alleati: vuole il ministro per gli Affari europei (in mano al premier dopo la nomina di Savona alla Consob) e un proprio rappresentante candidato a commissario europeo in un dicastero importante, mentre sono in scadenza i tre italiani al vertice (Tajani e Mogherini, più Draghi alla Bce). Da queste scelte si capirà l’orientamento dell’esecutivo italiano, in debito di un’operazione verità e chiarezza sul proprio atteggiamento verso le istituzioni europee. Un’Italia fin qui nel limbo del partner riluttante, preso talvolta con le mani nella marmellata, che parla tante lingue ma non sempre quella giusta.

© RIPRODUZIONE RISERVATA