
(Foto di Ansa)
MONDO. Viviamo un passaggio di portata storica: viene da lontano e ci sta portando lontano dalla condizione - politica ed economica - privilegiata di cui finora abbiamo goduto.
È forte la tentazione di fare del sarcasmo sulla (si fa per dire) buona novella comunicata al mondo dall’asse degli autocrati riunitisi a Tianjin. Questa buona novella ci annuncia che è in preparazione un nuovo ordine mondiale giusto e pacifico. Quale futuro di libertà, di democrazia e di pace possono costruire la Cina di Xi, che tiene in segregazione un intero popolo (gli uiguri), la Russia di Putin che somministra il polonio a chi osa dissentire, l’Iran di Pezeshenko che lapida le donne solo perché non tengono il volto coperto, la Corea del Nord che soggioga e affama il suo popolo (e manda a morire migliaia di giovani nella lontana Ucraina per ingraziarsi lo zar) e nel frattempo investe la parte preponderante del suo Pil per gli armamenti?
C’è poco da fare del sarcasmo. Il summit della Sco (Shanghai cooperation organization) è una cosa troppo seria perché liquidarla con un dileggio. Irriderla non aiuterebbe a prendere coscienza del passaggio epocale che stiamo vivendo. Sì, epocale. Si tratta di un passaggio di portata storica: viene da lontano e ci sta portando lontano dalla condizione - politica ed economica - privilegiata di cui finora abbiamo goduto. I «Trenta gloriosi» anni (1945-1975) del miracolo economico hanno consolidato in noi l’illusione che l’Europa, l’Occidente, fosse destinato ad essere, e soprattutto a restare, il centro del mondo. Illusione, dura a morire, rafforzatasi anzi colla caduta del Muro di Berlino. Sconfitto il comunismo, il futuro non avrebbe potuto che essere nostro. Democrazia ed economia di mercato non avevano più rivali. In realtà, abbiamo chiuso gli occhi davanti a un processo in atto da ormai un paio di secoli, caratterizzato dal declino dell’Europa e insieme dal tramonto dell’Occidente. Già agli inizi del 1800 osservatori acuti come Alexis de Tocqueville ci avevano avvertito che il futuro sarebbe stato degli Stati continentali: ossia Usa e Russia. Ma l’Europa, invece che guardare in avanti, ha perseverato a guardare all’indietro, ai quattro secoli (XV-XIX) in cui è stata il centro del mondo, in cui l’Inghilterra è riuscita addirittura a costruire l’impero più grande della storia. Da allora in poi, il tramonto del Vecchio continente è stato lento, ma irreversibile. Ancora a inizio Novecento l’Europa contribuiva con più del 40% al Pil mondiale. Oggi con meno del 16%. La Cina era al 6/7%, oggi è al 19%.
Accanto al peso economico, è diminuito anche il suo ruolo politico e, dato non meno grave, oggi ha sotto attacco la sua civiltà politica democratica e liberale. Si è invertito il processo che a partire dal secondo dopoguerra sembrava avviarci verso l’espansione della democrazia in tutte le parti del mondo. Come si è visto a Tianjin, il palcoscenico è invece ormai occupato da chi considera la democrazia senza futuro, da chi pratica - e propone - l’autoritarismo. Questi sono i dati materiali. Ad essi va aggiunto anche un dato immateriale, non meno grave. L’Occidente, invece di essere orgoglioso della propria storia, la sta demolendo a suon di «cancel culture», una liquidazione che non risparmia nessuno, anche i suoi grandi: da Dante a Churchill, da Aristotele a Colombo. Non c’è da meravigliarsi se poi l’Europa sconti un’irrilevanza che le preannuncia un declino irreversibile. A meno che… A meno che decida di ricostruire le basi materiali, culturali e politiche di un suo protagonismo. Nessuno si illuda su un (impossibile) ritorno al passato, ma nemmeno nessuno si arrenda ad un tramonto senza ritorno. Prima ancora che nei governi, manca all’Europa di sentirsi una «comunità di destino». Prima ne prende coscienza, meglio è. È un lavoro lungo e difficile da fare. Secoli di aspre lotte e di cruenti conflitti hanno sedimentato sentimenti di appartenenza separata, se non ostile. Da qui, però, bisogna ripartire. Il resto (uno Stato federale, politiche comuni in materia di economia, fisco, ricerca e di difesa) viene dopo, e di conseguenza.
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