Carceri e caserme
La legge violata

Il grande scrittore russo Fëdor Dostoevskij diceva che «il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni». Un giudizio figlio di un’esperienza personale: trascorse infatti dieci giorni in un duro penitenziario siberiano, prima di essere trasferito nel campo di Omsk, dove scontò quattro anni di lavori forzati perché membro di una società segreta ritenuta sovversiva. La verità della citazione del romanziere degli abissi umani porta a valutare l’Italia come Stato che ha un problema di civiltà. Abbiamo 190 carceri in edifici soprattutto fatiscenti, e sovraffollati (ci sono al momento 53.660 persone per una capienza regolamentare di 50.780 posti: il nostro Stato viola così la legge ed ha subìto condanne dalla Corte europea dei diritti dell’uomo), il 30% dei reclusi è in attesa di giudizio (non ancora condannati definitivamente cioè, contro una media europea del 20%), la presenza di donne con bambini e il personale sotto organico. Inoltre metà dei detenuti ha violato la legge sugli stupefacenti o sono tossicodipendenti che dovrebbero stare in una comunità per disintossicarsi. Una delle normative più repressive a livello europeo sul tema della droga, da 30 anni ha riempito le carceri di persone, senza aver diminuito il traffico di stupefacenti.

È in questo contesto che è avvenuta la mattanza dei detenuti a Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Le immagini delle telecamere di sorveglianza ci hanno mostrato una spedizione punitiva con agenti in tenuta antisommossa che non hanno risparmiato violenze e dolori nemmeno a un anziano in carrozzella. Il misfatto è avvenuto con la copertura dei dirigenti e con il tentativo vano di occultare le prove. La mattanza risale al 6 aprile 2020. Nel febbraio precedente ci furono rivolte in 21 istituti, con 107 agenti e 93 carcerati feriti e 13 morti che avevano ingerito psicofarmaci. L’innesco era stata la paura del Covid, con i primi contagiati nelle celle, l’assenza di protezioni in ambienti sovraffollati.

Si è parlato di «mele marce» a proposito degli agenti picchiatori, ma il termine è scivoloso: le mele marce infatti, se lasciate nel cestino, guastano anche quelle sane. Attualmente sono 16 le inchieste su abusi commessi dalla Penitenziaria nelle carceri. Alcune sono finite nel nulla, altre sono in corso e altre ancora sono arrivate a giudizio (10 poliziotti in servizio a San Gimignano sono stati condannati per aver brutalizzato un tunisino). In questi giorni è stato inequivocabile il richiamo dell’ispettore generale dei cappellani delle carceri, don Raffaele Grimaldi: «Occorre ripensare subito il carcere non come luogo di repressione ma di riscatto, per aiutare i ristretti a vivere il cambiamento, favorendo il più possibile le misure alternative alla detenzione»..Ma anche l’invito a non abbandonare i 40 mila agenti di polizia penitenziaria (subiscono 400 aggressioni all’anno) «che svolgono una missione difficile e hanno bisogno di sostegno e vicinanza, ma soprattutto di una formazione permanente e di un confronto franco su come gestire le criticità senza commettere illegalità». Il sovraffollamento poi rende i nostri penitenziari «polveriere di rabbia difficili da gestire. Bisogna riportare umanità e dignità nei nostri istituti». Proprio nei giorno in cui emergeva la mattanza casertana, sono stati tutti condannati i cinque carabinieri della caserma «Levante» di Piacenza, arrestati il 22 luglio 2020 dopo una lunga indagine della Guardia di Finanza: erano a processo per spaccio di droga, abuso d’ufficio e tortura. Dodici anni per l’appuntato Giuseppe Montella, considerato il vero leader del gruppo. Una brutta pagina per la storia dell’Arma, che rimanda alla morte di Stefano Cucchi: due carabinieri condannati a 12 anni per omicidio preterintenzionale, dopo che un collega ruppe il muro d’omertà. Uno dei pm che indagò sul caso, Sebastiano Ardita, ha detto che «le amministrazioni hanno istintivamente la tendenza a minimizzare. Mentre invece la verità, anche se può far male, serve a capire, a correggere e a ripartire».

Ovviamente, se è scivoloso parlare di mele marce, lo è anche generalizzare: la maggioranza degli agenti di polizia penitenziaria e dei carabinieri vestono la divisa con senso dello Stato e del la legge. Un articolo della Costituzione, il 27, andrebbe memorizzato: «La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». E poi quella parola, umanità, che l’uomo contemporaneo, inaridito dalle tecnologie e dall’individualismo, ha smarrito.

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