Cina, la bolla immobiliare: chi pagherà il conto

MONDO. Ci sono ombre cinesi sull’economia mondiale. La crisi del colosso China Evergrade - che ha presentato istanza di «protezione dal fallimento» negli Stati Uniti, in pratica di un congelamento della situazione, nella speranza di prendere tempo per ristrutturare il suo mostruoso debito di 300 miliardi di dollari - è l’ennesimo campanello d’allarme.

Pochi giorni fa non aveva pagato le cedole delle sue obbligazioni il maggior costruttore di case, Country Garden, ultima di una lunga serie di insolvenze di varie società real estate del Paese. Siamo di fronte a un caso Lehman, la banca che nel 2008 innescò una crisi finanziaria globale? Joe Biden, tanto per rassicurare i mercati, ha definito quella di Pechino una «bomba a orologeria».

Per ora gli esperti scommettono sulla tenuta della seconda economia del Pianeta. Dopo aver corso tanto negli anni precedenti la pandemia, il Dragone sta tirando il fiato, le esportazioni sono in calo, anche per via della guerra in Ucraina. Le previsioni sulla crescita del Pil si sono ridimensionate (dal 5,1 al 4,6%). Il problema più scottante è lo scoppio della bolla immobiliare, poiché questo settore rappresenta il 30% dell’economia di Pechino. Nei decenni precedenti la migrazione dalle campagne alle città, dove c’era un lavoro migliore e più remunerato, aveva creato una fame di abitazioni. Le società edili si facevano pagare in anticipo dai futuri acquirenti che avevano trovato un lavoro, indebitandosi per acquisire dalle province i terreni. Ma ora i cinesi hanno smesso di comprare case e l’eccesso di offerta ha creato una vera e propria frenata, che a catena ha portato i costruttori a fermare i progetti e non avere la possibilità di ripagare i debiti alle famiglie e ai vari enti locali proprietari delle aree di edificazione. La sola China Evergrande ha 700 mila appartamenti vuoti e incompleti. I debiti dei costruttori a loro volta erano stati ceduti a varie finanziarie o fondi di investimento del Paese della Grande Muraglia detti «trust», che ora si ritrovano il cerino in mano dopo aver promesso rendimenti fino al 15%. La differenza con la crisi americana del 2008 è che debitori e creditori (banche, fondi di investimento, società, semplici famiglie) sono quasi tutti cinesi e che le banche mondiali - dagli Usa all’Europa - non hanno questo tipo di obbligazioni in pancia come all’epoca della crisi dei titoli dei mutui subprime. Non dobbiamo dimenticare che il colossale debito pubblico cinese (288% del Pil) è per l’80% in mano a creditori del Paese. Insomma, finora è una faccenda tutta locale (locale si fa per dire, visto che gli abitanti di questo subcontinente sono un miliardo e mezzo) e non dovrebbe impensierire i mercati stranieri. Ma oggi, come è noto, la globalizzazione ha portato a un’interconessione quasi inevitabile dei mercati e nessuno può dirsi al sicuro. Per questo gli osservatori tremano ogni volta che si registrano imponenti vendite di titoli cinesi nelle Borse di tutto il mondo come sta avvenendo in queste settimane. Inoltre la Cina fa da volano all’economia di tutto il mondo. Se il Gigante si ammala ne risentiremo tutti, compresi noi italiani che con Pechino abbiamo numerosi legami economici di import-export.

A questo punto tutti aspettano le decisioni di Pechino, che come è noto è un mix di economia liberista selvaggia e di dirigismo comunista. C’è chi sostiene, tra gli economisti, che a prendere le redini della crisi dovrebbero essere le grandi finanziarie specializzate nell’acquisire titoli svalutati e ristrutturare i debiti. Ma il governo di Xi Jmping potrebbe adottare sistemi più statalisti, come ripianare i debiti dei vari trust stampando moneta o tassando i cinesi. Insomma, un piano di «salvataggi di Stato». In questo caso a pagare i costi della grande crisi immobiliare sarebbero la classe media cinese e la povera gente, in nome di un preteso orgoglio autocratico di immagine nazionale per cui i panni sporchi si lavano all’interno della Grande Muraglia.

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