Conflitto atomico, lo spettro asiatico

MONDO. Dopo anni in cui abbiamo sentito parlare fin troppo spesso del rischio di una guerra atomica in Europa, ecco che lo spettro dell’olocausto nucleare rispunta in tutt’altra parte del mondo, al confine tra due dei Paesi più popolosi del mondo che sono, appunto, anche due dei più armati di ordigni nucleari: circa 150 testate ciascuno.

La scintilla che ha scatenato le ostilità, come tutti ormai sanno, è stato l’attacco terroristico scatenato il 22 aprile dal Fronte di Resistenza, una «filiale» del gruppo pakistano Lashkar-e-Taiba, che ha ucciso 25 turisti nel Kashmir indiano. E il punto sta proprio qui, un punto che dal 1947 invece di ridursi si allarga.

Nel 1947, al momento della separazione tra India e Pakistan, il Kashmir, che era un piccolo regno indipendente, fu preteso da entrambi i Paesi: l’India perché così voleva il maraja Hari Singh, il Pakistan perché così voleva la maggioranza della popolazione, che era musulmana. Il risultato fu una guerra, la prima, con migliaia di morti tra i civili, e nel 1949, un accordo posticcio e mai davvero accettato: due terzi del Kashmir all’India e il resto al Pakistan. Da allora la tensione è cresciuta e calata, ma mai scomparsa. Nel 1965 un’altra guerra e un altro accordo per promettere una soluzione negoziata. Nel 1971 altri combattimenti, con l’India in aiuto al nascente Bangladesh contro il Pakistan: alla fine degli scontri fu anche definito il tracciato della Linea di controllo nel Kashmir. E in buona sostanza così fino ai giorni nostri, tra crisi più o meno violente, patteggiamenti più o meno fasulli e l’arsenale atomico che intanto cresceva.

La scintilla che ha scatenato le ostilità, come tutti ormai sanno, è stato l’attacco terroristico scatenato il 22 aprile dal Fronte di Resistenza, una «filiale» del gruppo pakistano Lashkar-e-Taiba, che ha ucciso 25 turisti nel Kashmir indiano. E il punto sta proprio qui, un punto che dal 1947 invece di ridursi si allarga

Contano anche le alleanze internazionali

Oltre ai problemi territoriali, molti altri fattori contribuiscono a complicare la situazione. Quello religioso, per esempio: il 98% dei 255 milioni di abitanti del Pakistan è formato da musulmani mentre in India i musulmani sono una minoranza (13%) a fronte di una vasta maggioranza (81%) di hindù, fattasi via via più aggressiva e discriminatoria negli anni dell’imperante nazionalismo del premier Narendra Modi. E contano anche le alleanze internazionali: la Turchia e la Cina buoni amici e soci del Pakistan, l’India fedele agli Usa (in chiave appunto anti-cinese) e in buoni rapporti con la Russia. A complicare le cose, l’appartenenza di Cina, Russia e India ai Brics.

La situazione del Pakistan

Il Pakistan, dopo la strage del 22 aprile, ha subito negato qualunque complicità con l’attentato ma questo non è bastato all’India. Prima di arrivare ai missili e alle bombe delle scorse ore, che hanno fatto decine di morti soprattutto nel Kashmir pakistano (terroristi, dice l’India: civili, replica il Pakistan), il Governo di Nuova Dehli aveva già preso un’iniziativa sufficiente a sconvolgere la regione, sospendendo il Trattato sulla condivisione delle acque dell’Indo che fu siglato nel 1960. Una costruzione tecnico-diplomatica complessa, con ripartizioni per fiumi e utilizzi (per la produzione di energia e per l’irrigazione) che, in sostanza, garantisce all’India lo sfruttamento del 20% del bacino idrico e al Pakistan il resto. Con le acque bloccate il Pakistan rischia il disastro agricolo, con le immaginabili conseguenze sulla popolazione. È dunque impossibile che il Pakistan, pure negli armamenti inferiore all’India (il suo esercito ha il doppio di uomini di quello pakistano e dispone di più aerei, più mezzi corazzati, più droni), possa accettare la combinazione indiana di attacco economico e attacco militare senza nemmeno provare a reagire. Senza nemmeno tentare di alzare il prezzo di un eventuale negoziato con un tentativo di resistenza militare. Il che ci riporta al problema di partenza: le dirigenze politiche dell’uno e dell’altro Paese, e soprattutto quella del Pakistan che appare sfavorito nel confronto militare, avranno la sufficiente lucidità per fermarsi prima di scatenare l’apocalisse?

Per ora molti sono stati gli inviti alla calma ma ancora nessuno si è fatto avanti con decisione per proporre una mediazione di alto livello. Qualche parola generica di Donald Trump ma nulla di più. Sarebbe invece il caso di muoversi in tutta fretta. E di meditare sul fatto che i fronti di crisi, invece di ridursi, implacabilmente si moltiplicano, dall’Ucraina al Medio Oriente, dal Mar cinese meridionale all’Asia continentale.

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