Conte e Schlein, la difficile partita per la leadership

ITALIA. Giorgia Meloni, come è ovvio e come tutti sanno, è decisa a ricandidarsi alle prossime elezioni come candidata a succedere a se stessa a Palazzo Chigi. A parte qualche malumore di Matteo Salvini, così stando i sondaggi, nulla potrà opporsi a tale volontà. Il problema semmai si pone sull’altra sponda, quella della sinistra e del suo litigioso «campo largo», sempre che esista ancora.

Lì la partita è a due, e si disputa tra Giuseppe Conte ed Elly Schlein. I quali giocano di minuetto tra loro, un po’ prendendosi un po’ lasciandosi come due fidanzatini litigiosi in un avanti e indietro che non si esaurirà se non alle prossime elezioni.

Il duello Conte-Schlein

Considerato che ormai Conte è diventato il padrone assoluto del partito che fu di Grillo, congedato con altezzosa sufficienza proprio da quell’avvocato-professore che nelle intenzioni di Di Maio e compagni era destinato a fare al massimo il ministro di serie C, bisogna capire se Elly resterà sullo scranno più alto del Pd fino alle prossime elezioni. La sua gestione del potere interno è abile e piuttosto egoriferita, ma non si deve fare l’errore di sottovalutare gli umori della minoranza, dei riformisti e dei vecchi capicorrente alla Franceschini, di quelli insomma che non accettano che il Pd si trasformi in qualcosa di molto simile all’Avs di Fratoianni e Bonelli, accondiscendente con la Cgil di Landini e il suo referendum fallito, e «testardamente» convinta che il M5S sia l’alleato obbligatorio al punto da regalare a Conte una posizione fin troppo privilegiata.

Se i riformisti si ribelleranno, prima o poi Elly potrebbe cadere dal banchetto, ma finora i fuochi in quel campo si accendono e si spengono con la stessa velocità con cui l’ex aspirante segretario Bonaccini ha subito siglato la pace con la sua vittoriosa avversaria Schlein.

Il ruolo di Calenda

Certo, di quando in quando ci sono deputati che si arrabbiano e magari votano con Carlo Calenda una mozione sulla politica estera che piace anche al centrodestra, e qualche altra volta un gruppone di parlamentari minaccia sfracelli se il Pd decide di votare a favore del documento iper-putiniano del M5S con cui Conte ha chiesto di riaprire il commercio con la Russia per comprare il suo gas e nello stesso tempo di interrompere qualunque aiuto all’Ucraina.

«Eh no, questo è troppo!» ha urlato il mite presidente del Copasir Guerini in faccia al capogruppo Boccia e alla segretaria. Risultato, il Pd non ha votato la tesi più estremistica uscita finora dal laboratorio da piccolo chimico di Giuseppe Conte. E i riformisti si sono di nuovo calmati.

Elly insomma deve posizionarsi un po’ meno a sinistra se vuole che l’intero partito la sostenga nella partita della vita, quella per Palazzo Chigi. Ma deve anche andarci piano (obbedendo al motto veltroniano: «sì ma anche») perché sa che se si distacca troppo da Conte rischia di regalare ai Cinquestelle le praterie elettorali del pacifismo soprattutto giovanile, dei gruppi pro-Pal, dei contestatori dell’Israele di Netanyahu e della Commissione von der Leyen (che il Pd a Bruxelles ha votato) con il suo odiato piano di riarmo europeo.

Tutti i voti di sinistra radicale cui guarda Conte, ingaggiato nella sua battaglia di possibile candidato premier: essere sempre e comunque il «riferimento fortissimo», per dirla con Zingaretti, della sinistra radicale, anche più in là di Fratoianni e della Piccolotti. Conte vuol essere il Melenchon italiano e ha le mani ben più libere della sua concorrente democratica che così si condanna a corrergli dietro (ma senza farsi troppo vedere).

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